Svevo e gli artisti

Maria Masau Dan

Tra i tanti frequentatori del Circolo Artistico Triestino, nato nel 1883 per vivificare una situazione un po’ stagnante[1], c’è anche il poco più che ventenne Ettore Schmitz, che impiega ogni ritaglio di tempo libero dal suo lavoro in banca per soddisfare le sue molteplici curiosità culturali. Il Circolo è animato da un gruppo di pittori “aperti a tutte le correnti” diviso fra “quelli che scendevano dal Nord, imbevuti delle teorie della scuola di Monaco” e quelli che seguivano “le concezioni latine, presenti con la scuola pittorica veneziana” [2]. A Trieste, del resto, questo non è insolito: è luogo di incontro di tante culture, dove si parlano diverse lingue e si coltivano molti interessi, musica, teatro, pittura. Il Circolo, che si prefigge scopi culturali, ma anche “di divertimento”, raccoglie in poco tempo ben seicento soci. E’ l’ambiente ideale per il giovane Schmitz, “temperamento eclettico”, ricorderà la moglie, che "scrive, suona il violino e ama ogni forma d’arte”.

Nel 1887 irrompe inaspettatamente nella conservatrice Trieste un gruppetto “scapigliato” formato dai giovani pittori Carlo Wostry, Isidoro Grünhut e Umberto Veruda, che rientrano da un triennio di studi a Monaco. Veruda, nemmeno ventenne (è nato nel 1868) si fa notare per la figura singolare, “alto come una pertica e magro magro”, e l’ abbigliamento stravagante, per cui al Circolo ha un successo immediato. Assieme a Wostry, poco più grande di lui, è subito incaricato di eseguire le caricature degli artisti, alte due metri, per la festa organizzata in onore di Eugenio Scomparini, presidente del Circolo, divenuto professore della nuova Scuola Industriale. [3]

Veruda non resta a lungo in città. Trova il modo di andare a Parigi per fermarvisi a studiare pittura qualche mese, e ricompare a Trieste in autunno, quando espone per la prima volta una sua opera, il ritratto di un ragazzino, nel famoso negozio Schollian.  Piovono le critiche su quel “suo fare troppo largo e spigliato” a cui evidentemente il pubblico triestino non è pronto. Secondo il critico dell’”Indipendente” egli “getta giù le sue pennellate con vera disinvoltura, ma tale che gli nuoce non poco” (10 novembre 1887).  Per le stesse ragioni nel 1888 non riesce a conquistare l’ambita borsa di studio della Fondazione Rittmeyer per un soggiorno a Roma e la ottiene solo l’anno successivo, dopo avere trascorso ancora un periodo di perfezionamento a Monaco [4].

I risultati del suo apprendistato romano, che si svolge in un ambiente aperto e vivace tra gli studi di via Margutta e i caffé degli artisti, arrivano ben presto: nella primavera del 1890, presenta cinque opere all’Esposizione di Belle Arti aperta in via Nazionale. Viene notato dalla critica e ottiene numerose citazioni sulla stampa romana, assicurandosi l’attenzione di un artista celebre come Domenico Morelli che davanti alle sue tele esclama: “Cosa manca a questo giovane? Pochi accordi di colore ancora ed è la pittura di un maestro!” L’opera Sii onesta viene acquistata per 4000 lire dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Quando espone nuovamente a Trieste, nell’autunno del 1890, invece, nulla è cambiato: la critica lo accusa ancora di “fretta” e di “impazienza”, attribuendo, dunque, allo scarso mestiere, più che alla modernità del linguaggio, il carattere sommario della sua pittura. Comunque gli viene assegnata la borsa di studio Rittmeyer anche per il secondo anno e può tornare a Roma fino all’estate del 1891.

 

E’ probabilmente durante una vacanza a Trieste che nasce l’ amicizia fra Ettore Schmitz e Umberto Veruda [5] di cui Livia Veneziani Svevo parla diffusamente: La solitudine intima di Ettore fu rotta verso il 1890 dall’incontro con Umberto Veruda, un giovane pittore pieno d’ingegno che rivoluzionava la pittura triestina dell’Ottocento, ma che la sua città non comprendeva ancora. Tutta dedita ai prosperi commerci, Trieste sfiorava appena e non approfondiva le cose d’arte. Non comprendeva la nuova pittura della luce. In Ettore, più maturo d’anni, il Veruda trovò un animo fraterno. La loro intesa spirituale fu completa e per lunghi anni vissero in profonda comprensione reciproca. Ai suoi ritorni a Trieste dai frequenti soggiorni a Monaco, a Vienna, a Parigi, a Berlino, si vedevano due o tre volte al giorno. La sera il Veruda aspettava Ettore nella sua stanza d’ufficio della Banca Union e nell’attesa si divertiva a schizzare le figure dei passanti. Facevano la passeggiata per il Corso e trascorrevano insieme molte ore della notte al caffè dei Portici di Chiozza, dove si radunava tutta la Trieste intellettuale. Si confidavano le loro speranze e si spronavano a vicenda. Veruda, sentendosi compreso, poteva intrattenersi con Ettore sugli appassionanti problemi della nuova scuola pittorica. Ettore passava molte ore nello studio dell’amico, situato nella vecchia Via degli Artisti, dove egli dipingeva insieme con il suo fedele ed entusiasta discepolo Ugo Flumiani.

C’era fra loro un’analogia di destino: ambedue si sentivano incompresi dall’ambiente, impregnato di quietismo provinciale. Ambedue andavano contro corrente ed erano oppressi da una profonda melanconia, che il pittore cercava di dissipare con l’abbandonarsi, nelle ‘sabatine’ del Circolo Artistico, a una sfrenata allegria. S’erano formati con molto coraggio e poca scuola e sentivano intorno a sé diffidenza e dissensi. Quattordici anni durò la bella amicizia, fondendo i due spiriti: Ettore temperava con mitezza bonaria l’irruenza del carattere bizzarro del Veruda, frenava la sua lingua mordace; e questi, con la sua baldanza istintiva, insegnava a lui, già piegato dalla durezza della sorte, a sorridere alla vita nonostante tutto.[6]”

Il sodalizio tra Veruda e Schmitz è suggellato da un primo documento pittorico nel 1892, il Ritratto di Svevo con la sorella Ortensia, al quale l’anno dopo il pittore aggiunge la dedica “A Ettore Schmitz più che amico fratello. 7/4/93”. L’opera rientra in una nuova fase creativa, ricca di scene di genere e di conversazioni mondane (Duetto, Terzetto, Quartetto [7]), rese con particolare freschezza e vivacità, ben lontane dai toni cupi degli esordi monacensi, ma ottiene un consenso minore delle altre tele, per quell’ incertezza compositiva riscontrabile proprio nella debole figura maschile, che tuttavia, non offusca il fascino della dolce Ortensia circondata da mazzi fiori che alludono al suo nome. In una lettera del 1912 alla moglie Ettore ricorderà che in gioventù aveva passato in Carnia “settimane indimenticabili con Veruda e Ortensia[ 8]”.

Il 1892 è un anno cruciale per Ettore Schmitz. In aprile muore suo padre e proprio in questa circostanza gli capita di ritrovare, dopo molti anni, la giovane cugina Livia Veneziani, con la quale intreccia un’affettuosa amicizia che sfocerà, nel 1896, nel matrimonio.

Tra le prime impressioni che la giovane registra di questo periodo c’è il legame tra lo scrittore e Veruda: “Sapevo della sua fama di critico letterario fattasi nell’ambiente triestino collaborando all’”Indipendente”, l’ardente giornale irredentista, e della sua stretta amicizia con il noto pittore Umberto Veruda, capo spavaldo della ‘bohème’ triestina, che passeggiava impassibile per il Corso vestito con stravaganza.”[9]. Nell’autunno esce con il pseudonimo Italo Svevo il primo romanzo di Ettore Schmitz, Una vita, accolto, com’è noto, con totale indifferenza. Di questo periodo si conservano nel Museo Sveviano di Trieste molte fotografie che riprendono i due amici nelle loro passeggiate triestine. E’ attribuito a Veruda il bel ritratto fotografico di Ettore con la paglietta in testa, seduto nello studio con il manoscritto di Una vita sottobraccio.

Negli anni tra il 1892 e il 1895  i due amici si frequentano con assiduità anche perché Veruda lavora prevalentemente a Trieste, dedicandosi molto ai ritratti, che sono la sua fonte principale di entrata. Qualche committente gli viene procurato dall’amico Ettore, come il collega della Banca Union Giuseppe Roncaldier, che gli affida il ritratto della sua bambina(10) , e forse anche il dottor Davide D’Osmo, medico di sua madre (11), ma il giro dei collezionisti di Veruda rimane ristretto, perché, come ricorda lo scrittore, egli “preferiva la compagnia di letteratuncoli come me, di un medico geniale e disordinato (12) , di un impiegato un po’strano ai ricchi che avrebbero potuto diventare suoi clienti, e le mie esortazioni non servivano” (13).  Le sue opere sono esposte con regolarità nel negozio Schollian e recensite dai critici locali sempre con gli stessi toni paternalistici e i medesimi argomenti: invenzioni “geniali”, immagini “piene di vita” ma offuscate dalla “trascuratezza del disegno”, dalla “noncuranza assoluta degli accessori”, dalle “tinte sui generis” . Egli ne soffre molto e trova nell’amico, a sua volta, incompreso dalla critica, un forte sostegno.

E’ del 1893 un’altra scena di vita familiare ripresa in casa Schmitz, "L’uccellino morto", grande tela che ritrae il nipotino Aurelio Finzi, figlio di Paola, la sorella maggiore tornata a vivere in famiglia dopo il divorzio, mentre sconsolato mostra il corpicino inerte del suo uccellino, ucciso dal gatto, a una donna sorridente, forse una domestica. Aurelio è uno dei nipoti prediletti di Svevo: divenuto medico, nel 1918 lo aiuterà nella traduzione de Il sogno di Freud e probabilmente è l’ispiratore della figura del medico ne La coscienza di Zeno (15) . 

Poco dopo la morte della madre, avvenuta nell’ottobre 1895, Svevo si fidanza con Livia Veneziani e inevitabilmente si allontana dall’amico o, comunque, quasi totalmente preso dalla novità (“La mia massima voluttà consiste nel sentirmi cambiato, non oso ancora dire ringiovanito. Cara Livia è stata una grave scossa, dalla quale non mi sono ancora rimesso ” [16]) non lo frequenta più tanto assiduamente. Veruda, come ricorda anche Livia, accoglie questo evento “con malumore” e già nel febbraio 1896 parte per Vienna. E’ un evento che non passa sotto silenzio: il 29 febbraio 1896 “L’Indipendente” pubblica un articolo intitolato “Umberto Veruda ci ha lasciato”.

A Vienna riceve importanti commissioni e migliora decisamente la sua situazione economica, tanto che l’anno dopo può recarsi a Parigi con l’intento di perfezionarsi nel disegno, il suo “punto debole” secondo i critici triestini. I rapporti epistolari e le visite reciproche mantengono, comunque, vivo il rapporto tra i due e Veruda segue con affettuosa partecipazione sia le vicende familiari - il matrimonio, la nascita della piccola Letizia (1897) - che il lungo lavoro di stesura del nuovo romanzo di Svevo, Senilità (“a che capitolo sei arrivato? quando stampi? vuoi il "pupolo?” [17] ) che esce nel 1898, informandolo, nel contempo delle sue vicende e dei suoi spostamenti tra Vienna, Parigi, Berlino.

Proprio il contenuto del romanzo, del resto, malgrado la distanza apertasi tra loro, dimostra la profondità e la forza di questa amicizia, che Svevo ha voluto eternare attraverso la costruzione del personaggio Stefano Balli, evidentemente ispirato a Veruda.  Nel suo Profilo autobiografico del 1928 [18], Svevo ammette di avere subito una “decisiva influenza” da parte del pittore e per spiegarla meglio si affida alle parole,“che per la loro precisione non si possono sostituire”, di Silvio Benco: “La figura dello scultore Balli (che nel romanzo è un po’il mito solare dell’arte) baldanzosa, avventurosa, scettica, ribelle a ogni vita morale, ma capace di ogni bontà, d’ogni pietà e perfino d’ogni assennatezza…Il libro non contiene del Veruda soltanto quel robusto ritratto, ma ne ripete il modo di vedere le cose, una certa giustezza e rettitudine di coscienza pittorica. E se lo Svevo ebbe dal pittore il grande dono di apprendere l’arte di ridere della vita, invece che morirne, anche il Veruda trasse qualche vantaggio da quella grande intimità: infatti il capolavoro del Veruda (Ritratto dello scultore[19]) riproduce evidentemente una scena di "Senilità" (“Piccolo della Sera”, 8 settembre 1927).

Questa circostanza è confermata da una lettera con cui Svevo propone a Enrico Somarè di pubblicare il dipinto nella seconda edizione di Senilità: “Il Ritratto dello scultore di Umberto Veruda ch’è nella Galleria d’Arte Moderna del Palazzo Pesaro di Venezia, è stato fatto dopo che il Veruda lesse il mio romanzo. Io allora gli dissi che egli vi si era ispirato ed egli annuì.”[20]

Correggendo in parte queste affermazioni, in una lettera a Emerico Schiffrer, Svevo sostiene, invece, che il carattere di Veruda era “radicalmente differente da quello del Balli” sia per il senso di responsabilità che per i rapporti con le donne (le trattava “col riguardo che si usa alle cose che scottano”) ma anche perché, “a differenza del Balli, al Veruda da bel principio era toccato il successo artistico [21]”. E, in effetti, salvo l’incomprensione della critica triestina, al pittore giunsero dal suo mestiere ben maggiori soddisfazioni di quanto non sia toccato ad altri artisti della sua città: la partecipazione a tre Biennali veneziane (1899, 1901 e 1903), la presenza di sue opere nei più importanti musei d’arte moderna italiani, (la Galleria Nazionale di Roma e la Galleria di Ca’Pesaro), e persino delle committenze illustri, tra cui l’ Imperatrice Elisabetta [22], l’attore viennese Adolf von Sonnenthal e i duchi di Marlborough che nel 1903 lo ospitano nel castello di Blenheim. Un'altra prova del suo successo internazionale è il ritratto che nel 1899 gli dedica il grande Max Liebermann (forse da lui conosciuto a Berlino, all’Esposizione internazionale del 1898), opera che sarà esposta a Venezia alla III Biennale, dove anch’egli è presente con "Epilogo".

A Venezia ha modo di ritrovarsi anche con Svevo, che dal 1899, lasciata la banca e le collaborazioni ai giornali, si dedica completamente al suo nuovo ruolo di dirigente della fabbrica di vernici Veneziani, per cui segue anche lo stabilimento di Murano. Una serie di lettere spedite da Venezia tra maggio e giugno del 1900 rivelano, però, che l’attaccamento al vecchio amico talvolta cede all’insofferenza per i soliti modi anticonformisti di Veruda, di cui in quest’occasione fa le spese la suocera dello scrittore.  Livia risponderà, un po’ piccata in una delle sue consuete lettere in francese: “Maman n’est pas coupable envers Veruda. Veruda est très impertinent et tout le monde ne supporte ses impertinences et le grands airs qu’il se donne.” [23].

Dopo il 1900 Veruda non espone più a Trieste e viaggia continuamente (Venezia, Vienna, Budapest, Parigi, Londra, Monaco) per eseguire ritratti o partecipare a mostre internazionali. Ma i contatti con Svevo e la sua famiglia non si interrompono mai: nel 1902, forse per ingraziarsi Livia (nel giugno1900 Svevo aveva scritto alla moglie: “Veruda ti manda a salutare caramente. Anzi mi disse: ‘Fa in modo che fra me e tua moglie ci siano buone relazioni’. Io gli risposi: ‘Dacché sono sposato non feci altro: ma tu ti sei prestato poco.”[24]) egli esegue due suoi ritratti [25] particolarmente espressivi, forse i più vicini alla bellezza severa e delicata della signora Svevo.

All’inizio del 1904 Veruda cade in uno stato di profonda crisi esistenziale, seguita alla morte della madre, avvenuta l’anno precedente. Gli viene in soccorso Ettore, che angosciato per lui – come ricorda la moglie – gli offre ospitalità nella casa dei Veneziani di Murano e lo incita a lavorare. L’ambiente lagunare, in effetti, lo aiuta a riprendere la pittura e in poco tempo esegue due dipinti di particolare bellezza, luminosi e squillanti,  "Fondamenta a Burano" e "Commenti", destinati alla Biennale di quell’anno. Sembra guarito, anche per merito del gruppo di artisti che incontra sull’isola.“Ma in quest’ultimo rifugio la malattia che covava da tempo scoppiò spietata. Tornò precipitosamente a Trieste, lasciando appena abbozzata la Testa di buranella e morì la notte del 29 agosto 1904. Vidi quel giorno Ettore abbandonato sul letto piangere per la prima volta come un bambino. Ancora una volta aveva perduto l’amico, il fratello spirituale, il confessore dei pensieri segreti, quello che gli era stato sempre vicino nelle avversità della vita.”[26] I quadri di Veruda furono conservati “religiosamente” in casa di Ettore Schmitz, che si curò anche del vecchio padre del pittore, la cui solitudine era aggravata dalla cecità.

Certamente Veruda occupa un posto unico e insostituibile nella vita di  Svevo, ma egli stesso è artefice di quell’interesse per la pittura moderna che porta lo scrittore a frequentare più o meno tutti gli artisti nuovi del panorama triestino. Nel 1901, quando Ettore e Livia si trasferiscono dal loro appartamentino a quello più ampio in cui vivono i genitori, Villa Veneziani ha una cospicua collezione d’arte. “Vi apparivano le più belle firme triestine: Veruda, Flumiani, Fittke, Grimani, Orell. Era stato Ettore che aveva aperto alla pittura le porte di casa Veneziani. Egli faceva spesso opera di mecenatismo verso gli artisti di Trieste. Da intenditore parlava dell’influsso di Veruda su Fittke, un altro eccellente ma sventurato pittore triestino finito suicida.”[27]

Per un periodo, dunque, Fittke prende il posto di Veruda in casa Svevo-Veneziani, anche se il suo temperamento è molto diverso. Estremamente timido, partecipa ai ricevimenti della domenica pomeriggio e conversa volentieri con Svevo ( che era stato suo insegnante alla Scuola di commercio Revoltella) specialmente di filosofia.[28]  Il suo rapporto con l’arte è molto sofferto perché la debolezza del carattere gli ha impedito di intraprendere una vera e propria carriera di artista, costringendolo a guadagnarsi la vita con un impiego alle poste, che non riesce ad accettare serenamente. Lavora nel silenzio e per un lungo periodo, dopo i primi tentativi, datati al 1896, smette di esporre le sue opere. Ricompare in pubblico solo nel 1906, con l’apertura della Permanente, che lo fa finalmente conoscere e apprezzare. Ma questo non è sufficiente per salvarlo dal dolore esistenziale, che lo porterà, nel 1910, al suicidio.

Per la famiglia Svevo-Veneziani, Fittke dipinge una serie di interessanti ritratti che comincia col delizioso, vivacissimo, Ritratto di Letizia Svevo bambina, del 1902,  e prosegue, l’anno dopo, col Ritratto di Livia Veneziani, per riprendere, nel 1906, con i ritratti della sorella di Livia, Nella, maritata Bliznakoff, e delle sue figlie, e, nel 1907, con il ritratto dell’altra sorella, Fausta, maritata Trevisani. In casa Svevo resta di lui anche una piccola veduta della Piazza Ponterosso, del 1903, in cui è colto con semplicità ed efficacia uno dei luoghi più caratteristici della vita cittadina.

Ma Fittke non è il solo artista che frequenta la famiglia nei primi anni del secolo. La galleria dei ritratti di Livia Veneziani, infatti, si arricchisce nel 1907 di quello che, forse, a un temperamento pacato come il suo, doveva apparire il più riuscito, il grande pastello firmato da Arturo Rietti, che la riprende di tre quarti, a mezzo busto, con un tocco leggero e sfumato che mette in risalto la dolcezza dell’espressione e la luminosità dello sguardo.

Con la morte improvvisa di Fittke, nel 1910, sembra chiuso anche il capitolo delle amicizie di Svevo con gli artisti triestini della sua generazione. Quelli che precedono la prima guerra mondiale sono anni di intenso lavoro, viaggi e altri interessi culturali, stimolati anche dal lungo sodalizio con James Joyce.  

Poi, con lo scoppio del conflitto, ricorda Livia, “la vita subì un mutamento profondo. All’attività febbrile successero il raccoglimento, il silenzio, l’attesa ansiosa” che preludevano alla nascita del terzo romanzo. Nel 1919 inizia a scrivere La coscienza di Zeno (“Fu un  attimo di forte, travolgente ispirazione. Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo”[29]) che esce nel 1923 ma solo nel 1925 ottiene i primi riconoscimenti critici. Solo a questo punto la vita di Svevo sembra normalizzarsi e riprendere le vecchie abitudini.  Torna a frequentare i cenacoli degli intellettuali, in cui, ormai, è tra i più anziani, ma il suo ascendente sugli altri è fortissimo. Ancora una volta è la moglie a darne testimonianza: “A Trieste frequentava il Caffè Garibaldi, dove ogni sera si radunavano gli intellettuali triestini, uomini di grande valore come Umberto Saba, Virgilio Giotti, Giani Stuparich, il pittore Bolaffio, lo scultore Rovan e tra i quali amava sostare il giovane Boby Bazlen, che fu uno dei primi sapienti lettori di Ettore. In questo circolo Ettore profondeva le sue originali interpretazioni del mondo e della vita. Ecco come Giani Stuparich descrive queste serate di letterati triestini: ‘Italo Svevo sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza la compagine del Caffè Garibaldi. Nasceva un calore comune, che senza di lui era come disgiunto fra i piccoli gruppi a sé e le presenze silenziose. Egli apriva con la sua larghezza di uomo di mondo la conversazione e la conchiudeva con il suo bonario sorriso particolare. Parlasse di Londra, di Firenze il suo tono era sempre triestino; in lui ci riconoscevamo tutti. Si discorresse di poesia, di narrativa, di arti figurative, egli non lesinava mai la sua pensosa partecipazione; ma gli piaceva soprattutto parlare di uomini, anatomizzare stati psicologici, cominciando sempre da se stesso, ponendo a nudo la propria natura umana con spontaneità garrula e profonda, tra il fanciullo terribile senza riguardi per nessuno e il vecchio sapiente, pieno di socratica finezza. Svevo sapeva conquistare persino Saba.’

Gli ultimi anni della sua vita, complice anche la raggiunta fama di romanziere, sono documentati da tre bellissimi ritratti, che ci lasciano un’immagine dello Svevo anziano molto più viva di quel giovanotto un po’sbiadito che compare accanto alla sorella Ortensia. Il busto eseguito nel 1927 da Ruggero Rovan, per il quale egli posa una decina di volte, è uno dei volti più intensi usciti dalle mani di questo scultore, ma non meno efficace è il disegno a sanguigna che gli dedica il giovane Carlo Sbisà, di cui egli presenta la prima mostra, pochi mesi prima di morire. Però il ritratto più originale è quello lasciatoci da una giovanissima Leonor Fini, che nel 1929, dunque “a memoria”, si cimenta con un ritratto a mezzo busto, d’impronta quasi metafisica.

E’ la prova che per la generazione del ‘900 Svevo è già entrato nella dimensione del mito.


Note

[1] Sulla storia del Circolo Artistico e, in generale, della vita artistica cittadina a cavallo tra Ottocento e Novecento resta fondamentale C. Wostry, Storia del Circolo Artistico Triestino, Udine, La Panarie, 1934.

[2] L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Edizioni dello Zibaldone, Trieste, 1958, p. 23.

[3] C. Wostry, Storia del Circolo…, p. 47

[4] Per approfondire la conoscenza della vita e dell’opera di Umberto Veruda si veda Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra a cura di M. Masau Dan, D. Arich de Finetti, Trieste, 1998.

[5] La data dell’incontro non è nota, ma già nell’agosto 1888 risulta che egli abbia partecipato, assieme ad altri artisti e a  Schmitz (collocato nel gruppo dei letterati), alla realizzazione di un cartolare augurale che il Circolo Artistico, per iniziativa del pittore Garzolini, aveva voluto dedicate allo scultore Luigi Conti nel venticinquesimo anniversario del suo matrimonio. Si veda in proposito S. Gregorat, La committenza privata triestina dell’ultimo decennio dell’Ottocento nella ritrattistica di Umberto Veruda, in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda…,pp. 47-48

[6] L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito., p. 32-33

[7] Queste opere risultano acquistate dall’ dall’imperatrice Elisabetta d’Austria per la villa dell’Achilleion di Corfù

[8] C. Mosca-Riatel, Testimonianze di un rapporto di amicizia nell’epistolario e nell’opera di Italo Svevo, in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 206.

[9] L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito., p. 12

[10] Scheda dell’opera Anita Roncaldier a tre anni, 1893 in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 173.

[11] Scheda dell’opera Ritratto del dottor Davide D’Osmo, 1894, in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 175

[12] Era il dottor Marcus, come precisa Livia Veneziani, parente del negoziante Marco Terni, ritratto da Veruda nel 1893 (cfr. scheda dell’opera Ritratto di Marco Terni in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 174)

[13] Lettera di Svevo a Emerico Schiffrer, 14.6.1928, in L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 36

[14] Belle Arti, in “L’Adria”, 18 ottobre 1894.

[15] Scheda dell’opera L’uccellino morto, 1893 in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 174.

[16] Lettera a Livia del 23 dicembre 1895, in L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 40

[17] Lettera di Umberto Veruda a Italo Svevo, Vienna 1897 o inizio 1898, in L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 63

[18] [ I. Svevo], Profilo autobiografico (1928), in L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 212.

[19] Il personaggio ritratto è Giovanni Mayer, scultore nato a Trieste nel 1863, che, dopo una quindicina d’anni trascorsi a Milano, città della sua formazione, era tornato a Trieste attorno al 1899 per realizzare un importante monumento funerario. Amico di Veruda, gli dedicò il busto che un paio d’anni dopo la sua morte, venne collocato sulla sua sepoltura. Esiste un altro ritratto di Mayer a busto intero, forse un lavoro preparatorio per la grande tela di Ca’Pesaro, donato nel 1943 dallo scultore stesso al Museo Revoltella.

[20] Lettera di Italo Svevo a Enrico Somarè, 14  settembre 1926, In Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 208.

[21]  Lettera di Italo Svevo a Emerico Schiffrer, 14 giugno 1928, in L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 35-36

[22] Si veda la nota 4

[23] C. Mosca-Riatel, Testimonianze di un rapporto di amicizia…cit., p. 203

[24] Ibid., pag 204

[25] Scheda dell’opera Ritratto di Livia Veneziani,  in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868-1904), cat. della mostra, Trieste, 1998, p. 187. L’altro ritratto, nel marzo 1928, fu donato dallo scrittore all’amico James Joyce e ora si trova nella James Joyce Collection dell’Università di Buffalo (Ibid., p.226)

[26] L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 34.

[27] Ibid., p. 75

[28] R. Da Nova, Arturo Fittke, Trieste, 1979, p. 100.

[29] [ I. Svevo], Profilo autobiografico (1928), in L. Veneziani, Vita di mio marito, p. 223.

dal catalogo della mostra La coscienza di Svevo, Trieste-Roma, 2002-2003


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