La fotografia deteriorata, metafora della vita

Riflessioni sulla mostra "Cultura di polvere" di Joan Fontcuberta a Palazzo Fortuny

di Adriana Casertano

25 marzo 2024. La mostra di Joan Fontcuberta Cultura di polvere, ospite a Venezia nel Museo Fortuny, dopo le tappe di Roma e Milano, è sconcertante. Proprio nel senso che causa uno stato di turbamento, di disorientamento, di perplessità.

Il suo fascino risiede non tanto nelle opere esposte quanto nelle domande che solleva. Perché è una mostra, più che fotografica, concettuale. Un invito a ripensare la fotografia. Sicuramente, come affermato dal giornalista Stuart Jeffries intervistando tempo fa Fontcuberta (“The Guardian”, 2014), la visita “richiede il dispendio gratificante di molta energia critica”.

 Protagonista dell’esposizione è il deterioramento dell’immagine fotografica, che per Fontcuberta diventa una metafora della vita. “La fotografia è un materiale vivo”, racconta, “Ha la sua biologia, il suo metabolismo. E questo metabolismo fa sì che le immagini nascano, si sviluppino e raggiungano maturità, poi diventino decrepite e infine agonizzanti e muoiano per ricominciare, forse, il ciclo della vita”.

 È qui che interviene l’artista che, concentrandosi su queste immagini destinate alla morte, può dare loro una seconda opportunità, riportarle in vita con un intervento artistico. Con la creazione di nuove immagini, formate dalla memoria antica e dalle cicatrici aggiunte dal tempo e dagli eventi. Nuove immagini che portano con loro una patina di nostalgia, un significato di storia vissuta. Che propongono un senso di straniamento, che fa di loro vere e proprie proiezioni d'immagini mentali.

Sono immagini astratte, vagamente impressioniste, ma a veder bene quelle che sembrano stelle sono spore di funghi, i nastri candidi sono filamenti di miceli e le macchie vivide, gialle, viola, nere, sono la materia degradata dai batteri nel corso del loro banchetto. 

 In un’altra sala, su un lungo tavolo nero sono esposte e illuminate altre lastre stereoscopiche di 8,5x17 cm col lato dell’emulsione ricoperta di muffa lanuginosa e brulicante di batteri e funghi. E di polvere, che nel tempo ha inglobato le spore della muffa.

La polvere, che dà il nome alla mostra, assume qui un significato escatologico, rimanda all’origine e alla fine: tutto nasce dalla polvere, tutto ritorna polvere. “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”.

 “Giardini di polvere” (Jardins de pols) è il nome che l’artista catalano ha dato all’esposizione inaugurata nel settembre dell’anno scorso a Barcellona, in cui ripropone in parte queste stesse opere, affiancate dai “ritratti” dei microrganismi responsabili del loro degrado, ottenuti con un microscopio elettronico.

“Coltura di polvere” (Élevage de poussière) è l’ironica foto di Man Ray del 1920 – nota anche come Vue prise en aéroplane par Man Ray –, cui Fontcuberta si richiama, e che con un gioco di parole trasforma in “Cultura di polvere”.

Man Ray aveva fotografato dall’alto, e con una ripresa inclinata molto bassa, un particolare del "Grande vetro" di Marcel Duchamp (Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923, Philadelphia Museum of Art), così come l’aveva trovato: pieno di polvere e residui dell’ovatta usata per pulirne una parte, riuscendo a catturare magnificamente la diversità dei materiali sulla superficie del vetro. Duchamp aveva posto per un anno il vetro orizzontalmente su due cavalletti in un angolo del suo studio a New York, perché voleva che il tempo vi creasse un “allevamento di polvere” che avrebbe completato l’opera, con una serie di rifrazioni ottiche al posto dei tradizionali colori. Polvere che poi fissò permanentemente con cemento diluito. 

Fontcuberta lavora sui principi surrealisti dell’objet trouvé. Come Marcel Duchamp aveva preso un comune pissoir e lo aveva trasformato in una scultura, così lui ha preso del materiale fotografico molto degradato, e lo ha trasformato in un’opera artistica dotata di “una certa dimensione poetica, strana, particolare”.

L’artista catalano è affascinato dalle fotografie malate, che trova di una bellezza incredibile, “la bellezza delle ferite, la bellezza delle cicatrici, la bellezza del degrado”.

La ricerca di queste immagini malate inizia nel 2016 in varie fototeche delle Asturie col progetto “Trauma” (anche le opere in mostra a Venezia prendono il titolo di Trauma # seguito dal numero): fotografie che hanno subito un qualche tipo di deterioramento che disturba la loro funzione documentaria e impedisce loro di “vivere” in un archivio ma che allo stesso tempo conferisce loro una straordinaria singolarità plastica. Da queste immagini ha realizzato un libro d'artista, Die Traumadeutung (Fundación María Cristina Masaveu Peterson, 2016), premiato come il più bel libro di fotografia pubblicato in Spagna nel 2016. Il frontespizio del volume imita la copertina della prima edizione del libro di Sigmund Freud, Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni), del 1900, riportandone anche la citazione, uno dei versi più straordinari di Virgilio: “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei del cielo, muoverò gli Inferi: Eneide, VII, 312), e dove la parola tedesca Traum (sogno) è stata sostituita da quella spagnola Trauma. 

 

Fontcuberta ha selezionato ventun lastre stereoscopiche rovinate – scattate tra il 1902 e il 1904 da un altro fotografo, Francesco Chigi –; ha scelto alcuni dettagli, gli ha ingranditi, fotografati senza compiere su di loro alcuna manipolazione, e messi in mostra. Così facendo ha anche “fermato il tempo”: ha fissato quel momento esatto del loro deterioramento, tra un paio d’anni l’immagine non sarà più la stessa. 

Nei dodici lightbox retroilluminati, dal formato 100x150 cm, si possono vedere, ingranditi ed esaltati dalla luce che li attraversa, tutti i segreti, le trame, i più piccoli dettagli del cancro che ha colpito l’emulsione alla gelatina d’argento. Cancro causato da muffe, microorganismi, batteri, funghi, umidità che ne hanno divorato la memoria, lasciando pochi lacerti di forme riconoscibili, sparpagliati qua e là.

La sua ricerca prosegue nel 2021, quando viene invitato a prender parte al programma “Residenze d’artista” dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), in cui artisti contemporanei sono chiamati a confrontarsi con il patrimonio storico dell’ente, con l’obiettivo di realizzare nuovi lavori fotografici in piena libertà espressiva e in accordo con l’archivio. Nuove fotografie, che alla fine saranno inglobate nell’archivio dell’ente, per promuoverlo non solo in ottica conservativa, ma anche in chiave contemporanea.

Per Fontcuberta ogni archivio è “una caverna di Alì Babà ricca di tesori”, e quando, come in questo caso, l’artista ha la libertà di interpretare i materiali in modo alternativo, diventa “una piattaforma di creatività”. Entrando nel Complesso Monumentale di San Michele a Ripa Grande a Roma, sede dell’ICCD, il suo apriti, sesamo! è stato: “Qual è il materiale più deteriorato che avete?”. La scelta è caduta sul fondo Chigi.

Il principe Francesco Chigi Albani della Rovere (1881-1953), fu una figura poliedrica: appartenente a un’importante famiglia della nobiltà papalina, fu scienziato naturalista, sperimentatore, viaggiatore. Con due grandi passioni, l’ornitologia – D’Annunzio lo definì il “principe degli uccelli” – e la fotografia, coltivate entrambe non da dilettante ma da maestro, con uno sguardo avveniristico per i tempi. 

In un momento in cui la stereoscopia viene vista come un divertissement da salotto, lui la usa per fare ricerche sulle prospettive e le profondità di campo; è tra i primi in Italia, già nel novembre 1907, a cimentarsi con l’autocromia dei Fratelli Lumière (entrata in commercio il 10 giugno), mostrando grandi capacità nel bilanciamento del colore e ottenendo riconoscimenti internazionali; sperimenta con la composizione, le aberrazioni, i fotomontaggi, le prove di viraggio, le tricromie. La perfetta conoscenza tecnica delle macchine fotografiche e delle attrezzature di camera oscura gli permette di intervenire con adattamenti e modifiche per raggiungere i risultati prefissati.

Definirlo fotografo dilettante appare riduttivo e fuorviante: fu uno scienziato che usò la fotografia per documentare le sue ricerche scientifiche, senza compiacimenti artistici. Anche nelle fotografie private, di famiglia e di viaggi, disattende tutte le regole manualistiche dell’epoca, creandosene di proprie.

Il fondo, donato nel 1970, presentava seri problemi di conservazione. I numerosi traslochi e l’incuria avevano rovinato parte del materiale, formato soprattutto da negativi alla gelatina d’argento su lastra. Dopo la morte di Francesco Chigi, nel 1953, le fotografie e le attrezzature erano state abbandonate nella soffitta della casa del guardiano della tenuta di Castel Fusano, dove Chigi, ai primi del secolo scorso, aveva allestito uno dei suoi laboratori. La parte in buone condizioni oggi consta di poco più di 6000 fototipi. Un’altra parte, non quantificata, venne considerata subito materiale di scarto perché in pessime condizioni, tali da non consentire nemmeno la leggibilità dell’immagine, con l’emulsione ormai compromessa da sollevamenti e distacchi, muffe e microorganismi, con lastre appiccicate tra di loro o ai contenitori.

Queste sono le immagini utilizzate da Fontcuberta. Che vi scorge un paradosso. “La fotografia ci aveva promesso l’immortalità”, osserva, “il nostro corpo è destinato a scomparire ma la nostra immagine rimane per sempre. Questa è la promessa della fotografia. Ma ora scopriamo che questo è falso. Anche la fotografia è deperibile e scomparirà”. Perché è un dispositivo di memoria legato al suo supporto materiale, il deterioramento di quest’ultimo genera una fotografia “amnesica”, senza più memoria.

In realtà, il progetto “Trauma” (cui appartiene “Cultura di polvere”) si inscrive all’interno di un percorso più ampio sull’analisi concettuale dell’immagine fotografica, seguito con coerenza da Fontcuberta nel tempo, che lo ha portato a demolire la fotografia analogica. Prima ha messo in dubbio l’idea della fotografia come specchio della realtà ed espressione della verità; poi la credenza secondo cui il messaggio fotografico non necessiti di essere interpretato in quanto, per natura, evidente. E ora punta il dito sulla memoria e materialità della fotografia.

Per il fotografo catalano siamo di fronte alle rovine della fotografia analogica, della fotografia fotochimica, alla fine di una fotografia materiale e oggettuale come la abbiamo conosciuta, e in transizione verso la fotografia digitale, algoritmica. “Oggi viviamo nella post fotografia – afferma – e questo ci consente di dire addio alla fotografia come l’abbiamo conosciuta, ma anche di renderle un tributo”. Con questa mostra.


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