30 gennaio 2025
Adriana Casertano
Fig. 1 – François Willème (1830-1905), Autoritratto, c. 1860, fotoscultura, gesso, 37,5 (altezza) x 14,4 x 14,4 cm, Museo George Eastman, in B. Newhall, “Photosculpture”, Image: Journal of Photography and Motion Pictures of the George Eastman House, n. 61, maggio 1958, pag. 100.
Fig. 2 – François Willème (1830-1905), Autoritratto, c. 1860, fotoscultura, gesso, 37,5 (altezza) x 14,4 x 14,4 cm, Museo George Eastman, in B. Newhall, “Photosculpture”, Image: Journal of Photography and Motion Pictures of the George Eastman House, n. 61, maggio 1958, pag. 100.
Nel 2023 si è tenuta a Lipsia una grande mostra internazionale, Dimensions. Digital Art since 1859, from the pioneers to the contemporary avant-garde, che ha fatto il punto sull’arte digitale. Vi erano esposte sessanta opere provenienti da vari media e paesi, scelte perché rappresentative di quello che, a quasi settantacinque anni dalla nascita, già è definito “classicismo digitale”. Tra esse spiccava una piccola statuetta in scagliola bianca, inequivocabilmente ottocentesca, che spiegava quella strana data, “1859”, nel titolo della mostra (fig. 1 e 2).
Era l’autoritratto in fotoscultura di François Willème, ideatore di quella tecnica ottocentesca, considerata dai curatori della mostra come la prima applicazione di arte digitale, dove la digitalità risiede nel suo particolare procedimento di assumere un certo numero di fotografie secondo valori discreti, cioè segmentate ogni 15° in uno spazio circolare. Un procedimento molto simile all’attuale scansione per la stampa 3D.
Oggi risulta sorprendente scoprire che nel XIX secolo furono sviluppate delle tecniche applicate alle arti in qualche modo analoghe alle nuove tecnologie, tuttavia questo non giustifica l’esplorare il passato con lo sguardo del presente, cosa che pare ormai d’obbligo, riducendo la storia reale a una sorta di “preistoria strumentale”, in cui “il passato è destinato a interpretare i vari ruoli teatrali richiesti per narrare la nostra storia” (Alexander R. Galloway, “Polygraphic Photography and the Origins of 3-D Animation”, in Animating Film Theory, ed. Karen Beckman, Duke University Press, 2014, p. 54-67, https://doi.org/10.1215/9780822376811-004). Ecco dunque che a Willème viene fatta interpretare una determinata parte, quella del “pioniere” dell’arte digitale, solo perché essa significa qualcosa per noi oggi, non importa che in realtà egli cercasse prima di tutto un metodo per semplificare e accelerare il suo lavoro di scultore, e non importa che la fotoscultura sia stata un capitolo della sua vita.
Tra il 1860 e il 1868, la fotoscultura è stata la tecnica fotografica che più di ogni altra ha suscitato meraviglia, curiosità, entusiasmo e polemiche; sebbene definirla “tecnica fotografica” non sia del tutto esatto: era un procedimento ibrido che metteva in campo fotografia, lanterna magica, pantografo e scultura. Eppure, malgrado il suo evidente successo, già alla fine del secolo era stata quasi del tutto dimenticata e anche oggi rimane in gran parte sconosciuta, relegata a una nota a piè di pagina nei libri di storia della fotografia, o travisata nei tanti siti che la celebrano.
Nato il 27 maggio 1830 a Givonne, piccolo centro vicino a Sedan, Auguste François Willème studia a Parigi, nella prestigiosa École imperiale supérieure des Beaux-Arts (in seguito, dopo il 1870 e la caduta del Secondo impero, cambia il nome in École nationale et spéciale des Beaux-Arts), e ne esce pittore, fotografo ma soprattutto scultore, specializzato nell’esecuzione di modelli per i fondeur-éditeurs, i fonditori di bronzi artistici che producevano varie edizioni in bronzo della stessa scultura.
L’editoria in bronzo era nata e si era sviluppata in Francia intorno al 1830, in risposta alla crescente richiesta della borghesia di piccole copie di sculture antiche e contemporanee, in vari materiali e dimensioni, per decorare gli interni delle case. All’epoca, la riproduzione dell’opera d’arte era lontana dall’essere vista come una forma di degradazione della scultura a mestiere, ma piuttosto come un veicolo per la diffusione del buon gusto e la conoscenza dell’arte.
Tra i fattori alla base di tale sviluppo, vi fu soprattutto l’invenzione di macchine per riprodurre le sculture, i réducteur, sorte a cavallo dei due secoli e perfezionate nella prima metà dell’Ottocento – quella di Frédéric Sauvage nel 1836, di Achille Collas nel 1837 e di Benjamin Cheverton nel 1844 –, derivate tutte dal pantografo, che resero possibile agli scultori produrre un numero maggiore di opere a costi inferiori, e con meno lavoro manuale (Buket Altinoba, “Engineers as Artists-Artists as Engineers. The Reproduction of Art Objects at the World’s Fairs”, in RIHA Journal, 31 maggio 2024, https://doi.org/10.11588/riha.2024.2.101744).
Queste macchine potevano copiare, ridurre o ingrandire una scultura già esistente, ma non potevano essere utilizzate per le persone vive e vegete, in carne ed ossa, desiderose di avere un loro ritratto scultoreo economico e rapido, senza quindi rivolgersi a un artista come erano soliti fare i rappresentanti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. La ritrattistica personale, insomma, rimaneva ancora vincolata a un sistema elitario e tradizionale. La soluzione al problema sarebbe venuta da Willème.
Nel 1859 concepisce una nuova tecnica che chiama “Processo di foto-scultura”, e il 14 agosto 1860 ne deposita il brevetto francese, cui in seguito apporterà rilevanti modifiche e aggiunte. Nella richiesta del certificato d’invenzione, annota: "La scultura è solo un'interpretazione più o meno esatta della natura e per ottenere risultati seri sono necessari studi molto lunghi e spendere molti soldi in modelli. Pensavo che utilizzando due cose conosciute, la fotografia e il pantografo, avrei potuto ottenere una scultura esattamente simile al modello, vivente o inerte, ottenerla più rapidamente, con meno spese e con maestranze senza alcuna conoscenza dell'arte della scultura. Ecco come lo faccio...”(Description des machines et procédés pour lesquels des brevets d’invention ont été pris sous le régime de la loi du 5 juillet 1844, Imprimerie Nationale, Paris, 1872, p. 160).
Al soggetto, posto su una piattaforma circolare, venivano scattate delle fotografie simultanee da ventiquattro angolazioni diverse, poste tutte alla distanza di 15°, ottenendo così ventiquattro fotografie di profili (fig. 3). Ogni fotografia veniva proiettata con una lanterna magica su uno schermo, ingrandendola o diminuendola; un disegnatore ripercorreva a matita i profili principali del modello, e un pantografo, collegato a una estremità a una taglierina, da un lato ricalcava questi profili e dall’altro tagliava con lo stesso identico movimento un blocco di creta o cera da modellare, posto al centro di un vassoio mobile circolare la cui circonferenza era divisa in tante parti uguali quante erano le fotografie scattate, e che veniva fatto ruotare per ogni fotografia (fig. 4). Quando tutti i ventiquattro profili erano stati sagomati dal pantografo, e il materiale in eccesso rimosso, un modellatore levigava e rifiniva l’opera. Il risultato era un'immagine volumetrica riproduzione fedele del modello originale (fig. 5).
Il prototipo del primo procedimento immaginato da Willème e poi modificato – un busto di donna in legno, incompiuto, di circa 14 cm –, mostra ben visibili le lamine di legno fotoprofilate, e rappresenta il risultato dell'applicazione letterale del principio alla base della fotoscultura, secondo cui la somma dei profili di un corpo ne dà il rilievo (fig. 6).
Anche tale concetto non era nuovo, risaliva alla metà del XVI secolo, inserito nell’ambito di quel dibattito conosciuto come il "Paragone" tra le arti, che tanto infiammò gli artisti del Rinascimento. Aveva avuto inizio da un passo del primo libro del Trattato della pittura (1540) di Leonardo, nel punto in cui si discute dei meriti e delle difficoltà, e dunque della maggiore nobiltà, tra pittura e scultura, là dove si indica che per fare “una figura tonda”, non c’è bisogno di “infiniti termini”, cioè di un infinito numero di vedute, come andavano sostenendo gli scultori, ma solo di due “mezzefigure”, di due profili (§ 33 e § 37).
Benvenuto Cellini, chiamato a dire la sua dall’umanista Benedetto Varchi nel 1547, affermò, al contrario, che una statua dovesse avere otto vedute, tutte di pari qualità: quattro sugli assi principali e altre quattro sugli assi diagonali.
La discussione – accompagnata dall’osservazione che, mentre la veduta unica, frontale, esige un osservatore statico, quella con un numero infinito di vedute trasforma l’osservatore in cinetico – trovò nel corso dei secoli un’ampia risonanza presso gli artisti che risponderanno in maniera diversa, oscillando tra la passione per le sculture a vedute plurime dei manieristi e del Giambologna in primis, alla predilezione di Gian Lorenzo Bernini per quelle a veduta frontale, con una dimostrazione clamorosa: gli basteranno solo tre profili, dipinti da Antoon Van Dyck, per realizzare il busto marmoreo di Carlo I d'Inghilterra nel 1635-1636 senza aver mai visto il sovrano; impresa replicata nel 1640-1641 col busto del cardinale Richelieu, basato anche questo su un ritratto triplice dipinto da Philippe de Champaigne, e nel 1650-1651 con quello di Francesco I d’Este, sempre basato sui soli disegni di profili. In seguito, in Francia, se per i grandi scultori del Settecento divenne “un assioma che una figura dovesse presentare innumerevoli vedute”, per quelli della prima metà dell’Ottocento, i contemporanei di Willème, le opere dovevano avere invece un unico punto di vista frontale, come nella pittura (Rudolf Wittkower, La scultura raccontata da Rudolf Wittkower. Dall’antichità al Novecento, Einaudi, Torino, 1985, p. 249).
Willème riprende dunque l’idea della scultura costruita a 360° dai suoi innumerevoli profili, ma va oltre, compiendo, probabilmente senza accorgersene, un’operazione rivoluzionaria e, per l’epoca, quasi scandalosa. Prima assimila la fotografia al disegno, perché sostituisce ai disegni dei profili le fotografie dei profili, eliminando in un colpo solo quello che veniva considerato come l’inizio del processo creativo dello scultore e dello stile individuale: lo schizzo, il disegno preparatorio. Poi riduce queste fotografie a una mera linea di contorno che delimita la figura fotografata. E infine, col suo sistema di ripresa inedito, mette in discussione lo stesso mezzo fotografico, perché ne scardina il punto di vista unico, la raffigurazione illusoria dello spazio ottenuta secondo la prospettiva rinascimentale che la fotografia aveva ereditato dalla pittura, aprendo la porta alla molteplicità dei punti di vista anche in fotografia (Jean-Luc Gall, “Photo/sculpture. L'invention de François Willème”, Études photographiques, n. 3, novembre 1997, p. 46-57, https://journals.openedition.org/etudesphotographiques/95).
Il 17 maggio 1861, presenta questo prototipo alla Société française de photographie, l’accoglienza è decisamente sfavorevole: per i membri della Società le fotografie forniscono solo proiezioni, sagome; non concepiscono come si possa ottenere con questo procedimento l'esatta riproduzione delle figure, e soprattutto passare dalla bidimensionalità della fotografia alla terza dimensione della scultura; concludono con un “spetta alla pratica decidere sul valore del processo del signor Willème” (Bulletin de la Société française de photographie, 1861, seduta del 17 maggio, p. 150-151).
Questo stesso scetticismo caratterizza le speculazioni dei contemporanei: “Quest'opera di trasformazione volumetrica sembra difficile da immaginare quando ciò che caratterizza la fotografia è non presentare nessuno spessore" (Théophile Gautier, "Photosculpture", La Revue photographique, tomo 8, 1863); "Possiamo mantenere una certa incredulità sul successo del signor Willème, finché non abbiamo visto lo strumento mordere l'argilla” (Henry de Parville, " Revue des sciences ", Le Constitutionnel, 5 aprile 1863). E Willème giocherà con questa incredulità, ammantando la sua scoperta di un alone di mistero e magia, in linea con l’estetica espositiva dell’epoca, quella delle esposizioni industriali, delle fiere, dei gabinetti di curiosità, dei panorami, delle fantasmagorie, in cui le “macchine” di nuova invenzione venivano esposte in spettacoli che erano un intreccio tra magia e tecnologia di fronte a un pubblico stupito (Buket Altinoba, “‘Curious Machines’. Reproducing Sculpture via Machine and Its Modus of Display in the Nineteenth Century”, in The Sculptural in the (Post-)Digital Age, a cura di Mara-Johanna Kölmel e Ursula Ströbele, Berlino, 2023, p. 37-57, https://doi.org/10.1515/9783110775143-005).
Nel 1862 costituisce, con il sostegno finanziario di un gruppo di banchieri e imprenditori, la società per azioni Société générale de photosculpture de France - Willéme, de Marnyhac et C.ie, insieme all’artista e commerciante Jacques Elie Edmond Armand de Marnyhac noto come Charles de Marnyhac (1840?-1897), personaggio ancora poco studiato ma non di secondo piano, che diventa anche direttore artistico e poi gerente dello stabilimento.
All’inizio del 1863 apre al pubblico l’atelier, appositamente costruito per le necessità della nuova tecnica. È una elegante costruzione, bassa, a cinque campate, ornata da statue e sormontata da una cupola – “una cupola senza peso di vetro bianco e blu”, la definirà Théophile Gautier –, al n. 42 dell’avenue de l’Etoile (poi de Wagram), a due passi dall’Arco di Trionfo. Attira subito l’attenzione del pubblico: all’inizio si pensò fosse una serra, poi uno zoo in stile inglese per “animali lillipuziani”, poi un acquario e, solo infine, quando venne innalzata l’insegna che riportava a grandi lettere d’oro quella strana parola, "Fotoscultura", si capì che era uno studio fotografico (Henri de Parville, Le Constitutionnel, 5 aprile 1863). Qui si trovavano le gallerie di esposizione, la sala di posa, la direzione, e i laboratori dei pantografi e dei modellatori, ai quali si accedeva dall'ingresso separato al n. 40, che nell’illustrazione si vede a destra della facciata (fig. 7).
Anche lo slogan pubblicitario dei manifesti, affissi per le strade della città e che verranno puntualmente ripresi dall’obiettivo di Charles Marville (1813-1879), è strano – “Dieci secondi di posa. Scultura secondo natura ottenuta meccanicamente” – e naturalmente attira molti curiosi, tra cui giornalisti e artisti, di cui, sulla stampa dell'epoca, si leggono le testimonianze entusiastiche sul “laboratorio misterioso” di avenue de Wagram (fig. 8, 9, 10).
Secondo le loro descrizioni, il visitatore, entrando nell’edificio, attraversava innanzitutto pompose gallerie, decorate con arazzi turchi, dove erano esposti i “prodotti” realizzati in diversi materiali (fig. 11 e 12). Poi, saliti pochi gradini, si veniva condotti al salon de pose: "Immaginate una vasta rotonda di vetro che non contiene strumenti di alcun tipo, nessun apparato visibile a occhio nudo, nulla che offra alcuna indicazione della meravigliosa operazione che sta per svolgersi" (Paul de Saint-Victor, “La Photosculpture”, La Presse, 15 gennaio 1866).
Questa “rotonda” misurava dieci metri di diametro, ed era posta esattamente sotto la cupola di vetro, da dove filtrava la luce del giorno. Il pavimento era ricoperto di sottili stuoie che attutivano i passi, le pareti avevano un tono morbido e neutro. Ed era completamente vuota, solo le pareti curve erano decorate da ventiquattro mensole sostenenti statuette e busti fotoscolpiti, che nascondevano gli obiettivi di altrettante macchine fotografiche invisibili ai visitatori, poste a 15° di distanza l‘una dall’altra. Gli otturatori degli apparecchi erano collegati tra loro da un cordone nascosto che consentiva di effettuare ventiquattro scatti simultanei, in un tempo di esposizione di dieci secondi. Dal centro della cupola scendeva un filo a piombo terminante con una pallina argentata, sopra due dischi sovrapposti, divisi da linee nere corrispondenti a numeri, che formavano una piattaforma (fig. 13).
Saliti su questa piattaforma numerata – spiega Thèophile Gautier, che si è appena messo in posa, infilando la mano nel risvolto della giacca e guardando lontano –, “si sente un fischio. Un piccolo schiocco sordo si propaga per tutta la stanza. Non muoverti e aspetta. Un fischio nuovo ti penetra fin nelle ossa; il primo suono riecheggia di nuovo. È fatto. Sono trascorsi appena dieci secondi tra i due fischi. Dopodiché, un operatore ti chiede di scendere. Non ha più bisogno di te. Sei già catturato in tutti i tuoi profili e sviluppato da praticanti invisibili” (T. Gautier, “Photosculpture”, Moniteur Universel, 4 gennaio 1864).
Il dispositivo fotografico era stato volutamente nascosto – la sala circolare vuota, l’occultamento delle fotocamere, la velocità del processo – per accrescere la meraviglia del visitatore e creare una messa in scena in attesa del miracolo: una scultura quasi istantanea, una scultura in dieci secondi.
Dopo la sessione fotografica, gli artigiani, “i praticanti invisibili”, proiettavano ciascuna delle ventiquattro fotografie in successione utilizzando la lanterna magica. Poi, col pantografo tracciavano il contorno di ogni silhouette proiettata, mentre l’altra estremità tagliava la stessa silhouette in un pezzo di argilla, che giravano di 15° sul suo asse verticale per ogni numero delle ventiquattro tracce, producendo un taglio approssimativo della scultura (fig. 14).
Infine era il turno dei modellatori che dovevano fondere i piccoli intervalli tra i profili e levigare tutte le ruvidità, "questa è una parte molto delicata del processo; perché si deve comprendere che richiede un artista di gusto e giudizio per eseguirla in modo soddisfacente e per conferire all'opera tutta la finitura possibile" (“Photo-Sculpture”, The Art-Journal, v. 3, nuova serie, maggio 1864, p. 141) (fig. 15).Il tempo necessario per realizzare una fotoscultura era di 2-4 giorni secondo la dimensione: si poteva optare per una statuetta di 50 cm, o un busto a grandezza naturale o ridotto della metà, o un medaglione con il profilo. L’esecuzione di quest’ultimo era ancora più rapida perché non c'era nemmeno bisogno di posare, era sufficiente avere due fotografie sincrone del modello, una di profilo e l'altra di fronte, prese ad angolo retto. Henri de Parville, in visita all’atelier, nota di aver visto “cartoline fotografiche con ritratto arrivare da Bruxelles, dall'Italia, dall'America e trasformarsi in pochi giorni in medaglioni di perfetta somiglianza” (Henri de Parville, “Revue des sciences”, Le Constitutionnel, 5 aprile 1863).
Si poteva scegliere anche il materiale: gesso di Parigi, terracotta, biscuit, bronzo, alabastro e persino metallo placcato mediante galvanoplastica. Sulla base veniva inciso il termine "Photosculpture" o "Photosculpture de France".
Il prezzo, secondo le dimensioni e i materiali utilizzati, variava dai 270 ai 500 franchi. Uno scultore convenzionale avrebbe avuto bisogno di 3-4 mesi e circa 3.000-5.000 franchi per una scultura simile.
Willème e de Marnyhac partecipano con grande successo alle due “Mostre di fotografie francesi e straniere” a Parigi, al Palazzo dell'Industria sugli Champs-Élysées, organizzate dalla Société française de photographie nel 1863 e nel 1864; sempre nel 1864 partecipano con ventitré sculture alla “Prima mostra di fotografia” a Vienna, nel Palazzo Dreher sulla Operngasse, la prima organizzata nel mondo di lingua tedesca dalla Photographische Gesellschafte, visitata dallo stesso imperatore Francesco Giuseppe.
Tale è la popolarità raggiunta che nel dicembre 1866 la società apre una filiale al n. 35 del boulevard des Capucines, proprio a fianco dell’atelier di Nadar, in un edificio imponente di quattro piani: “avrete sicuramente notato una nuova costruzione, con una cupola vermiglia e colonne moresche, che farebbe credere ad una moschea incastonata tra le case di Parigi, se non fosse per le maschere e le statuette… La fotoscultura si è appena trasferita nel centro della Parigi artistica e mondana, cioè nel suo ambiente naturale” (Paul de Saint-Victor, “Feuilleton de la Presse, Théâtres”, La Presse, 17 dicembre 1866) (fig. 16).
Lo studio è frequentato dalla buona società del Secondo Impero francese, tra cui la coppia imperiale, Napoleone III e Eugenia de Montijo, e il suo entourage, e tutte, ma proprio tutte, le personalità del mondo artistico, letterario e imprenditoriale: da Rossini a Disdéri, da Théophile Gautier a Paul Gavarni, dal duca di Morny al conte Aguado, da Ferdinand de Lesseps a Isaac Pereire, poi gli attori e membri della Comédie Française, le cui effigi entrano a far parte della “Galleria degli Artisti Drammatici”, posta in una sala apposita dell’atelier (fig. 17a, 17b, 17c).
La voga della fotoscultura superò anche i confini francesi, studi simili furono aperti a Londra nel 1864, e a New York nel 1866, e ne parlarono con entusiasmo i giornali di mezzo mondo. Vengono ritratti il papa Pio IX, l’imperatore del Messico Massimiliano d’Asburgo, varie arciduchesse austriache, ma l’opera più impegnativa sono i numerosi ritratti della famiglia reale di Spagna – tra cui sei statuette in bronzo argentato, raggruppate sulla riproduzione della pedana della Sala dei Leoni del Palazzo di Madrid (fig. 18) – per cui Willème venne ricompensato con le insegne dell'ordine di Carlo III di Spagna, e di cui rimane una straordinaria testimonianza fotografica: il re consorte Francisco che posa, vestito di gala e con il reggitesta, mentre la regina Isabel II, anch’essa vestita di gala, si riposa, probabilmente dopo la seduta (Leticia Azcue Brea e Mario Fernández Albarés, “La photosculpture. Su desarrollo en la España de Isabel II (1860-1868)”, Boletín Academia, n. 116, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid 2015, p. 109-154, https://www.realacademiabellasartessanfernando.com/publicaciones/revista-academia/) (fig. 19).
Il pregio speciale dei ritratti fotoscolpiti, riconosciuto da tutti i critici, è l’estrema somiglianza ai modelli, che, nel caso delle statuette, si estende a tutta la persona, conferendo loro una realtà sorprendente. “Ciò che colpisce innanzitutto di queste statuette è il movimento che vi sentiamo, è la vita che le anima”, scrive Ernest Lacan (“Exposition photographique”, Revue Photographique, tomo 8, 1863, p. 141-148); e gli fa eco Paul de Saint-Victor: “l'uomo è lì, colto e fissato nel rapporto delle sue proporzioni, nell'abitudine del suo corpo, nell'aplomb o negligenza della sua posa, nello sguardo caratteristico del suo gesto e della sua andatura, nella speciale piega che imprime su ogni parte dei suoi vestiti. È una di quelle statuette che viste da dietro si intuiscono, così come si riconosce da lontano un passante, in base al suo aspetto” (“Feuilleton de la Presse, Théâtres”, La Presse, 24 dicembre 1866).
Proprio questa aderenza al reale, unita alla automaticità produttiva che estrometteva in parte l’abilità manuale dello scultore e che portava a un’arte alla portata di tutte le borse, venne considerata come antiartistica, perché obiettivo della ritrattistica non era rappresentare il corpo ma piuttosto l'anima; s’innescò quindi un dibattito se la fotoscultura dovesse essere ammessa tra le opere delle belle arti o tra quelle delle arti industriali, o addirittura, come chiese Lacan, esigere per essa un “luogo eccezionale” tra le due.
Le discussioni si inasprirono quando Willème, oltre alle statuette e i ritratti, si cimentò nella statuaria allegorica, osando esporre nei suoi atelier dei grandi nudi fotoscolpiti, rappresentanti idee, divinità mitologiche ed eroi, entrando così nel dominio della “vera” scultura. Per i critici, catturando con la fotografia un'esatta somiglianza del modello e applicandola in forma meccanica, la fotoscultura non poteva "ascendere" allo status di grande arte, “la somiglianza basta per il ritratto di famiglia, per la statuetta di società realizzata per lo scaffale, destinata all'ornamento del boudoir; ma la statua nuda o drappeggiata esige bellezza ed esige stile. Destinata a personificare un dio o una ninfa, un Genio allegorico o un'eroina, deve salire nella scala degli esseri plastici, per raggiungere il rango che deve occupare. Ma solo la mano dello scultore può fargli superare i gradini che separano lo strato inerte dalla vita ispirata del tipo”, e si innescarono delle polemiche molto simili a quelle che solo qualche anno prima aveva suscitato la fotografia: “la fotoscultura non può che aspirare a diventare la praticante ambita dai maestri. Questo compito è abbastanza bello da soddisfare la sua ambizione… La scultura ormai non ha più un rivale, ma un assistente devoto e rapido, dotato di un certo tatto e di una precisione infallibile… Libera lo scultore dai lavori servili del compasso e della sgrossatrice… La macchina non compete con l'artista, gli chiede solo di impiegarla come un professionista rispettoso, che prenderà i suoi ordini e preparerà la sua opera” (Paul de Saint-Victor, “Feuilleton de la Presse, Théâtres, La Photosculpture”, La Presse, 7 gennaio 1867).
Willéme e de Marnyhac cercarono di rispondere a tali critiche nominando nel 1867 come direttori artistici degli scultori di fama, il notissimo Auguste Clésinger (1814-1883), genero di George Sand, e il giovane italiano Antonio Giovanni Lanzirotti (1839-1911).
La notorietà mondiale arrivò con l’Esposizione Universale di Parigi, che si tenne dal 1° aprile al 3 novembre 1867, visitata da più di undici milioni di persone. Willème presentò la sua invenzione in un padiglione progettato allo scopo, copia in piccolo dell’atelier di Avenue de Wagram, composto da un corpo centrale poligonale, fiancheggiato da ali rettangolari, proprio vicino all’ingresso principale, su La Grande Avenue nel Quai d’Orsay (fig. 20).
Tuttavia, nonostante i successi, la situazione economica della società andava peggiorando di giorno in giorno: gli elevati costi operativi non erano compensati da entrate sufficienti. La produzione di massa si era rivelata un errore: il procedimento della fotoscultura era un’operazione molto costosa – lo stabilimento dava lavoro “a circa trecento mani”, ed era dotato di luci elettriche o al magnesio, in modo da poter lavorare giorno e notte ("Photosculpture", Scientific American, v. 16, n. 11, 16 marzo 1867, p. 168) – e il prodotto sarebbe dovuto costare di più, ma Willème era convinto che, proprio per la modestia del prezzo, l’estrema somiglianza e la piccolezza delle misure, sarebbe stato in grado di attrarre un’ampia base di clienti. Cosa che invece non avvenne: le opere artistiche nella casa borghese avevano lo scopo di mostrare il gusto e la raffinatezza del proprietario, ma se il pezzo veniva considerato banale o di cattivo gusto dalla comunità dell'arte, non sarebbe stato apprezzato nemmeno dal consumatore borghese, e, per l’appunto, il valore artistico della fotoscultura era stato messo in dubbio.
Aveva inoltre un concorrente temibile nei ritratti carte-de- visite, immagini non belle ma che godevano di un successo straordinario – Disdéri ne sfornava 2.500 al giorno – e non certo per le qualità artistiche. Molto economiche, costavano tra i 10 e i 20 franchi, il loro formato permetteva di portarle sempre con sé o di spedirle, mettendo in moto dei meccanismi concettuali quale sentire di avere vicino ciò che era stato immortalato, e di trovarsi quasi di fronte a una reliquia. Fatto del tutto nuovo, avevano aperto la porta alla dimensione esperienziale: i clienti, uomini e donne, invece di assumere le classiche pose serie e austere previste dalla ritrattistica, davanti “a quella macchinetta che dava il brivido di tante pose diverse e consecutive”, si lasciavano andare ad atteggiamenti inconsueti, a travestimenti, giochi, a micro performance da grand guignol, con grande costernazione dello stesso Disdéri. Senza contare che innescarono la moda degli immancabili album fotografici posti sui tavoli del salotto che, con la loro selezione di carte-de-visite, diventavano “una chiave di lettura dei gusti e dei pregiudizi della casa”, suggerendo le posizioni politiche e le relazioni sociali e affettive (Federica Muzzarelli, Formato tessera. Storia, arte e idee in photomatic, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 35-64; Sylvie Aubenas, “Le petit monde de Disdéri”, Études photographiques, n. 3, novembre 1997, p. 21-29, https://expositions.bnf.fr/portraits/grosplan/texte2.htm).
Come poteva l’ingombrante fotoscultura, senza neppure avere lo status di opera artistica, reggerne il confronto? Willème cercò di proporre allora piccoli busti chiamati “carte-busts”, praticando un prezzo decrescente dipendente dal numero di pezzi acquistati, ma l’iniziativa non ebbe il successo sperato.
I rapporti tra Willéme e de Marnyhac si incrinarono; Willème si rifiutò di rivolgersi a nuovi creditori, come avrebbe voluto de Marnyhac, e il 20 maggio 1867 diede le dimissioni di fronte a tutta l’assemblea generale degli azionisti, che sposò la linea di de Marnyhac, accettando le dimissioni di Willéme e approvando l’aumento di capitale della società e la sua denominazione in “Sociéte Génerale de Photosculpture Charles de Marnyhac et C.ie” (fig. 21). Un anno dopo l'impresa era sull'orlo del fallimento e nel 1869 fu definitivamente sciolta.
Nello stesso anno, Willéme, non ancora quarantenne, lasciò Parigi e tornò a stabilirsi con la famiglia a Sedan, dove strinse una collaborazione con un fotografo locale, Charles Jacquard, titolare dello studio “Au Sauvage”, e per l’occasione preparò una splendida caricatura fotografica rappresentante se stesso reggente una statuetta in fotoscultura e Jacquard con la macchina fotografica (https://collections.eastman.org/objects/465707/willeme-et-jacquard?ctx=6d593728-09c0-4de9-bdb1-d40e03455d94&idx=3). In seguito ne divenne il proprietario, continuando anche a realizzare fotosculture di piccole dimensioni (fig. 22).
Nel 1870, scoppiò la guerra franco-prussiana e su richiesta di Auguste Philippoteaux, sindaco di Sedan, effettuò delle riprese fotografiche delle città distrutte, in particolare di Bazailles, teatro il 1. settembre 1870 di intensi combattimenti tra unità di fanteria di marina francesi e reggimenti bavaresi, e di Sedan, dopo il devastante assedio e resa del 31 agosto-2 settembre 1870.
A guerra finita, gli venne commissionata l’esecuzione di un gruppo scultoreo allegorico, L'Angleterre venant au secours de la France, da donare a dei cittadini inglesi come ringraziamento per l’aiuto dato alla popolazione di Sedan; la sua ubicazione attuale è sconosciuta, ma prima di essere inviato a Londra, lo stesso Willéme ne scattò delle fotografie, oggi conservate al Museo George Eastman (https://collections.eastman.org/objects/465708/sculpture-by-willeme?ctx=d9ced4e5-62ca-4361-a6bd-0690fc017873&idx=23). Fu incaricato, sempre dal sindaco Philippoteaux e dall'architetto Édouard Depaquit, direttore dei lavori, di documentare le opere che dal 1876 a 1884 consentirono alla città di espandersi e ne cambiarono la fisionomia, immagini che confluirono in vari album e sono consultabili su https://www.histoire-sedan.com/index.php?r=8. Nel frattempo continuò ancora a perfezionare la tecnica della fotoscultura, ricevendo brevetti francesi nel 1876 e nel 1882. Morì a Roubaix il 29 luglio 1905.
Che cosa rimase della fotoscultura a Parigi, dopo la partenza di Willème?
Nell’atelier di avenue Wagram 42 subentrò l’azienda di fondeur-éditeur che Charles de Marnyhac aveva fondato con altri soci, la Société des Marbres et Bronzes Artistiques de Paris, nota come “Maison Marnyhac”; qui vi pose gli uffici, i laboratori e la fonderia di bronzo, mentre la galleria di esposizione e vendita era situata in un’altra sede, in rue de la Paix 1 (fig. 23). L’azienda era specializzata nella produzione di calchi di modelli realizzati da famosi artisti contemporanei, utilizzando anche la tecnica della fotoscultura – addirittura Auguste Clésinger intentò nel 1872 una causa legale – e di articoli di lusso in marmo e bronzo, cosa che fu il motivo del suo successo, venendo considerata dalla critica come diretta concorrente dei celebri bronzetti Barbedienne. Nel 1889 si trasferì in un’altra sede, e nel 1890 l’edificio venne demolito e l’anno successivo edificato il caseggiato odierno.
Invece la filiale di Boulevard des Capucines 35 divenne una sala per conferenze ed esposizioni, al pari del vicino atelier di Nadar. Anche questi, pressato dalla situazione economica, aveva dovuto lasciare la sua prestigiosa sede nel 1872 e trasferirsi in uno studio dislocato e più economico; ed è qui che nella primavera del 1874 si tenne la prima, celeberrima mostra dei pittori impressionisti, dove nacque il termine “impressionista”. Nell’estate-autunno dello stesso anno, nei locali che erano già stati della fotoscultura si tenne una mostra insolita e avveniristica, Pompéi à Paris. Si trattava della tappa francese del tour che avrebbe portato in giro per il mondo il Pompeiorama, uno spettacolo ideato nell’ottobre 1869 dal fotografo Giacomo Luzzati, per la Casina Pompeiana della Villa Comunale di Napoli, appena costruita. Lo spettacolo consisteva in una sorta di visita virtuale della città distrutta, offrendo la possibilità di vederne una doppia versione, una in rovina e una ricostruita, attraverso viste dioramiche, artifici ottici e le riproduzioni in fotoscultura dei principali edifici di Pompei eseguite dallo stesso Luzzati; i modelli così ottenuti, alti e larghi circa cinquanta centimetri, in stucco colorato, erano posti davanti a una tela dipinta che sembrava fondersi con essi. Davanti a tutto, era stata messa una lente d'ingrandimento e guardando attraverso questa, per un'illusione ottica, i modellini assumevano proporzioni enormi. Argus, nom de plume del giornalista che ne fa il resoconto, scrive estasiato: “Né il panorama, né il diorama, né lo stereoscopio, raggiungono tali effetti: sentiamo che l'aria circola attraverso le colonne, che potremmo salire questi gradini, passare sotto queste volte. Ho passato un'ora intera vagando dalla Casa del Poeta Tragico al Tempio di Iside e dal Gran Circo alla Strada di Ercolano... Ero a quattrocento leghe da Parigi, e venti secoli fa” (Argus, “Chronique”, in La Semaine des familles, a. 16, n. 18, 1 agosto 1874, p. 288).
Anche il clima artistico andava cambiando. Nel 1864, all’apice della popolarità della fotoscultura, un oscuro ornatista di 24 anni presentava al Salon di Parigi, l’esposizione dell’arte ufficiale, anticamera dell'Accademia, la sua prima opera, un busto in gesso intitolato L’Homme au nez cassé (L’Uomo dal naso rotto), che venne respinto perché considerato eccessivamente verista. Nel 1877, quando di anni ne aveva 37, e continuava a fare l’ornatista, ci riprovò con una statua in gesso, L’Âge d’airain (L’età del bronzo), e questa volta gli andò anche peggio, il realismo dell’opera, che contrastava così tanto con lo stile decorativo della scultura dell’epoca, provocò scandalo nella giuria e nei circoli artistici, tanto che dovette difendersi dall’accusa di averne modellato lo stampo su una persona vivente. L’artista si chiamava Auguste Rodin (1840-1917) e anni dopo, famoso e incensato dalla critica, racconterà come nelle opere di quel periodo avesse iniziato a usare un particolare metodo, poi abbandonato, basato sulla costruzione sequenziale dei profili a 360°. Non c'è mai stato da parte degli storici e della critica un tentativo di determinare da dove Rodin avesse potuto derivare tale pratica: non dalla scultura dell’epoca, e neppure da reminiscenze scolastiche, perché Rodin non ebbe alcuna seria formazione scolastica. Lo storico dell’arte Robert Sobieszek ha allora suggerito che potrebbe essere stato influenzato dalla tecnica della fotoscultura, in pieno auge in quegli anni, nel suo costruire le figure dai profili (Robert A. Sobieszek , “Sculpture as the Sum of its Profiles: François Willème and Photosculpture in France, 1859-1868”, The Art Bulletin, v. 62, n. 4, 1980, p. 618–622).
Oggi sono essenzialmente tre i “luoghi” dove poter vedere i prodotti della fotoscultura.
Il primo è il George Eastman Museum di Rochester, negli USA, ed è interessante riflettere su come vi siano arrivati. Il 23 maggio 1924, il francese Gabriel Cromer (1873-1934), fotografo dilettante, storico della fotografia e uno de più importanti collezionisti di fotografia francese, presentò a Parigi una conferenza dal titolo “François Willème, inventeur de la photosculpture” (Bulletin de la Société française de photographie, n. 6, giugno 1924, p. 134-145), illustrandola con pezzi della sua raccolta, e riscoprendone così la figura e l’opera. Nella sua ricerca, poté consultare i discendenti di Willème e due dei suoi assistenti, cosa che gli permise di comprendere appieno il funzionamento del procedimento. Nell’occasione, Cromer contattò le autorità culturali francesi perché acquistassero tutta la sua imponente collezione (di cui facevano parte anche gli “oggetti” relativi alla fotoscultura): essa avrebbe dovuto costituire la base per un museo nazionale francese di fotografia, ma le autorità non si mostrarono interessate, al contrario della Eastman Kodak Company che, nel 1939, acquisì gran parte della collezione (oltre 5600 pezzi) dalla vedova di Cromer, che in seguito, nel 1947, donò i pezzi restanti alla Bibliothèque nationale de France. Nel 1949, la collezione Cromer-Kodak fu trasferita al neonato George Eastman Museum, che aprì al pubblico nello stesso anno sotto la curatela di Beaumont Newhall. Nel 2019 ne è stata completata la sua catalogazione e digitalizzazione, con l'accesso online gratuito sia per la ricerca accademica che per l'indagine ricreativa; la sezione dedicata alla fotoscultura è consultabile su https://collections.eastman.org/search/photosculpture. La parte della collezione donata alla Bibliothèque nationale, circa 1500 pezzi, fu invece suddivisa tra varie istituzioni e al momento non risulta più rintracciabile.
Il secondo “raccoglitore” di fotosculture è il Musèe Carnavalet di Parigi, il museo della storia della città, che conserva numerose statuette di attori della Comédie Française, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/recherche/type/oeuvre/ET/auteur/Will%C3%A8me%2C%20Auguste%20Fran%C3%A7ois.
Il terzo è la Galerie Gérard Levy di Parigi, galleria d’arte privata aperta nel 1966 da Gérard Levy (1934-2016), mercante e collezionista di opere dell’estremo oriente e di fotografia antica, https://www.galeriegerardlevy.com/en/home/.
Nel frattempo, è cresciuto esponenzialmente l’interesse per la fotoscultura e per il suo ideatore. Oltre l’esposizione di Lipsia con cui si è aperto l’articolo, nel 2023 anche la città di Sedan gli ha dedicato una mostra, François Willème (1830-1905). Artiste sedanais innovant, di cui è disponibile il filmato (https://www.youtube.com/watch?v=JZ8yobmhdu0).
Come già scritto, la cosa che sorprende di più è che oggi si usi lo stesso, identico, sistema di ripresa ideato da Willème – ventiquattro obiettivi circolari sincroni (ma nel primo brevetto, quello del prototipo, erano cinquanta) orientati verso un modello centrale – per le scansioni 3D. Al posto della “rotonda” di avenue de Wagram, oggi ci sono cabine circolari fisse, dotate di scanner per catturare il corpo da tutte le angolazioni, in parte sostituite dai body scanner 3D portatili, che vengono manovrati tutti attorno al soggetto per eseguirne la scansione, quando non è lo stesso modello ad essere posto su una piattaforma girevole.
Sebbene le tecniche di base siano simili, così come gli obiettivi sociali (dare ai consumatori accesso a strumenti e oggetti che in precedenza erano accessibili solo alle élite) il contesto e le visioni dominanti su come e perché vengano impiegate, sono cambiate radicalmente. Nel XIX secolo la fotoscultura era gravata dal peso di dover essere considerata arte, status che non ha mai raggiunto, in quanto, affidandosi alle macchine, per i contemporanei aveva rimosso la creatività dell’artista. Oggi, al contrario, è considerato non solo accettabile ma auspicabile che le macchine sostituiscano la maggior parte del lavoro umano; inoltre alla tecnica 3D nessuno chiede di essere arte, deve solo offrire la possibilità di liberare la creatività individuale: ecco, dunque, che viene usata non solo per creare statuette ma in una straordinaria varietà di applicazioni, in medicina, scienza, ingegneria, architettura, commercio, arte, sport e pubblicità.
Un campo particolare, poi, è quello della CGI (computer generated imagery), il vasto mondo che riguarda scene, effetti e immagini utilizzate nei film e nei videogiochi. Tra questi effetti, uno dei più noti è il “bullet time” – più conosciuto come “effetto Matrix” perché reso celebre in The Matrix dei fratelli (oggi sorelle) Wachowski del 1999, film vincitore di quattro premi Oscar, di cui uno proprio per questo effetto speciale, rielaborato dal supervisore John Gaeta –, in cui si dispongono le telecamere in cerchio, attorno agli attori, e gli scatti avvengono contemporaneamente, consentendo di mostrare una scena come se il tempo si fosse fermato, con gli attori che restano sospesi a mezz’aria o curvi in pose innaturali, pietrificati, mentre la cinepresa sembra girare attorno a loro a velocità normale (fig. 24 e 25). Curiosamente nel 1866 il critico Paul de Saint-Victor, riflettendo sulla stranezza delle figurine fotoscolpite, aveva avuto una sorprendente espressione simile: "La vera missione della fotoscultura è… perpetuare l'immagine fotografica pietrificandola" (Paul de Saint-Victor, "Feuilleton de la Presse – La Photosculpture", La Presse, 24 dicembre 1866).