RITRATTO DI UNA CITTA'   - 1891 1914



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L’esposizione di fotografie stenopeiche di Lorenzo Tommasoni a Trieste

Adriana Casertano

 “Volevo solo essere amato”, esposizione personale di Lorenzo Tommasoni, 6 aprile-2 maggio 2024, Sala comunale d’arte, Trieste
“Volevo solo essere amato”, esposizione personale di Lorenzo Tommasoni, 6 aprile-2 maggio 2024, Sala comunale d’arte, Trieste

In queste giornate di aprile, dalla scenografica Piazza dell’Unità di Trieste, tra il mare azzurrissimo e il bianco delle architetture asburgiche, v’invito a entrare nella Sala comunale d’arte, al pianoterra del Palazzo del Municipio, e a immergervi nel fascino della fotografia stenopeica. Sarà una rivelazione. Perché a nessuno verrebbe in mente che una scatola di cartone senza (quasi) nulla dentro, possa trasformarsi in una macchina fotografica capace di produrre immagini. Ho scritto “scatola di cartone”, ma avrei potuto scrivere un panino (Paolo Gioli, Pane stenopeica camera con carta sensibile, 1975), o una mano stretta a pugno (Paolo Gioli, Pugno contro me stesso, 1989), o addirittura il WC di un treno (Steven Pippin, The Continued Saga, 1993). 

 

La fotografia stenopeica è quella che si realizza senza l’uso di lenti e obiettivi, e che sfrutta il principio della formazione delle immagini nella camera obscura. La macchina stenopeica è semplicissima: una scatola con un piccolo foro (foro stenopeico appunto o pinhole in inglese), attraverso il quale entrano i raggi luminosi che incidono sulla pellicola fotografica posta sul fondo. La prima menzione di un dispositivo fotografico di questo tipo è attribuita nel 1856 a David Brewster; la sua massima diffusione si ebbe però negli anni 1880-1890, periodo ricchissimo d’innovazioni tecniche e chimiche, e che vide affermarsi il movimento fotografico pittorialista, la cui estetica fu la prima matrice dello specifico stenopeico. Nel 1890 la fotografia stenopeica di George Davison (o Davidson) The Onion Field (Campo di cipolle), considerata il manifesto del pittorialismo, vinse il primo premio all’esposizione annuale della Photographic Society of Great Britain. La vittoria fu controversa, provocò numerose e aspre polemiche fra detrattori e sostenitori, e portò a uno scisma nella Photographic Society (che presto sarebbe diventata la Royal Photographic Society) con la nascita del famoso gruppo pittorialista del “Linked Ring”.

 

Nel primo Novecento, la nuova estetica realista della fotografia straight e la produzione ormai industriale di macchine fotografiche non lasciarono spazio alla fotografia stenopeica, che venne dimenticata o utilizzata solo nell’insegnamento dell’ottica. In ambito educativo, un professore universitario, Frederick W. Brehm, progettò intorno al 1930 la Kodak Pinhole Camera, venduta in un kit composto da cinque pezzi di cartoncino, nastro gommato, spilla per il foro e istruzioni per l'uso. Per la grande ripresa bisognerà aspettare gli anni 1960-1970, quando diversi artisti iniziarono a sperimentarne la tecnica. Da allora vennero pubblicati articoli, libri, siti web, organizzate grandi mostre internazionali, istituita la Giornata mondiale della fotografia stenopeica (l’ultima domenica di aprile). La pratica riprese così una crescente popolarità. L’artista che più si è speso per questo riconoscimento, è stato probabilmente l’americano Eric Renner, che ha creato Pinhole Resource, una sorta di centro d’informazione sulla fotografia stenopeica a livello mondiale. Nel 2012 la sua collezione – 100 libri, 56 macchine fotografiche e 6000 fotografie – è stata donata all'archivio fotografico del Palace of the Governors presso il New Mexico History Museum di Santa Fe, che oggi è la più grande banca-dati di immagini stenopeiche. L’archivio ha già digitalizzato centinaia di immagini (anche quelle delle piramidi eseguite nel 1883-1884 dall’egittologo Flinders Petrie con una scatola di biscotti con foro stenopeico), che possono essere ricercate su https://econtent.unm.edu/digital/collection/pinhole/search

Da prendere al balzo dunque l’occasione di ammirare da vicino le fotografie stenopeiche del triestino Lorenzo Tommasoni, che ci regalano pura meraviglia, stupore, emozione. L’esposizione s’intitola “Volevo solo essere amato” e, infatti, celebra l’amore, che è immedesimazione totale nella Natura, nelle meraviglie del creato, tra cui la luce. Il vero significato di fotografia è scrivere con la luce, e, nel caso della stenopeica, nel modo più puro, senza alcun artificio dell'ottica. “Mi piace – osserva Tommasoni – che l'aria salmastra, se fotografo vicino al mare, o lo smog […] possano sfiorare, lambire la pellicola, senza l'ostacolo di strati di vetro nel mezzo, e questa è realmente l'immagine naturale.” Questo è ciò cui si è dedicato ed è rimasto fedele nei suoi quasi trent’anni di pratica fotografica.

La fotografia stenopeica è strana: facile ma anche difficile, complicata e maledetta, come osservava Paolo Gioli.

È facile perché non usa tecnologie avanzate e costose; anzi, il fotografo stenopeico integrale, come lo definisce Michele Smargiassi, si fabbrica da solo le proprie “scatole” fotografiche. Tra questi c’è pure Lorenzo Tommasoni: anche lui preferisce costruire in proprio gli apparecchi fotografici che utilizza; come gli artisti del Rinascimento, va alla ricerca dei materiali che reputa migliori, scatole di cartone tamburato di vario tipo e dimensioni, impenetrabili alla luce, a volte riciclate, e dotate di fori larghi meno di 5 decimi di millimetro. In esposizione è possibile vedere alcune di queste “scatole”, e anche provarle sotto la guida dell’artista. Non nascondono la loro natura artigianale perché, come dice Tommasoni, “la finitura esterna non ha alcuna influenza sulla qualità delle immagini”. 

D’altra parte, è una pratica difficile perché il fotografo non ha grande spazio d’intervento, compone la scena e poi deve lasciar fare alla “scatola” il suo lavoro, senza sapere quale sarà il risultato. Non c’è il mirino, quindi è negata la traguardazione, l'inquadratura. “Non c'è la possibilità di variare il diaframma, – dichiara Tommasoni – né l'otturatore meccanico, sostituito da una saracinesca a ghigliottina manuale, il tempo si tiene contando poi si chiude, e via”. Finché non si vede lo sviluppo della pellicola, non si sa esattamente che cosa si sia fotografato. E poi c’è sempre l’imponderabile, il colpo di vento improvviso che fa muovere i rami o l’uccello che entra rapido nella ripresa.

Si capisce allora come la stenopeica sia una pratica molto speciale, e si avverte l’impossibilità di valutarla come le altre fotografie, perché ha una sintassi tutta sua. Un'esposizione con il foro stenopeico richiede da svariati secondi ad alcuni minuti, questo significa che consente di registrare solo ciò che è immobile, mentre sfuma, con conseguente motion blur, gli oggetti in movimento e cancella tutto ciò che si muove troppo velocemente. Aggiungiamoci l’infinita profondità di campo, la morbidezza delle immagini, la totale assenza di distorsioni, le possibili variazioni prospettiche, la vignettatura creata dalla caduta di luce ai bordi del foro, e abbiamo i termini che contraddistinguono lo specifico stenopeico.

Il pane quotidiano del fotografo stenopeico è “l’incertezza del risultato; la disponibilità ad accettare il caso, l’errore, l’imperfezione; la serendipità di un esito non voluto ma felice” (M. Smargiassi, Fotografia stenopeica, Atti del primo convegno nazionale, Musinf, Senigallia, 2012, p. 17). Deve allora mettere in gioco tutto il suo bagaglio di esperienze, pensare il tempo in un modo completamente differente. Non avere fretta, trasformare il guardare distrattamente in vedere con attenzione. Quasi una filosofia di vita che si riassume nella ricerca dell’essenzialità, “la mia stella polare” come la chiama Tommasoni.

Le fotografie in esposizione sono frutto di una profonda conoscenza della pratica, il fotografo triestino riesce a sfruttare le potenzialità creative e concettuali della fotocamera per produrre immagini duttili. Dispiace allora la mancanza di didascalie con titoli, indicazioni tecniche e soprattutto date di esecuzione, per poter meglio cogliere la sua evoluzione artistica. Le foto in esposizione possono vedersi tutte su https://gratis-4500771.webadorsite.com/mostra-trieste-2024, tranne uno splendido paesaggio, arrivato in sala all’ultimo momento.

Alcune fotografie evocano la tendenza impressionista del movimento pittorialista. La seducente Dama di Arles, sfavillante di colore. E così pure Cappelletta Braida a Cerasolo, tra l’altro una delle poche immagini in bianco e nero, e Linda a Roz sur Couesnon. Vi si sentono echeggiare le parole che Peter Henry Emerson, il padre del pittorialismo fotografico, scrive in Naturalistic Photography (1889): “Niente in natura ha un contorno rigido, ma tutto è visto contro qualcos’altro, ed i suoi contorni si dissolvono delicatamente su qualcos’altro, spesso così sottilmente che non si è in grado di distinguere dove finisce uno e inizia l’altro. In questa mescolanza di decisione e indecisione, la scoperta e la perdita nascondono tutto il fascino e mistero della natura”.

In Altare della Patria. Vittoriano e Il torero di Nîmes la fotocamera è stata collocata a terra in modo strategico, così da ottenere delle riprese spettacolari, dal basso in alto, che esaltano la maestosità degli edifici. Immagine frontale nel torero, che dispiega la sua muleta sul perfetto e nitidissimo semicerchio dell’arena, ed eccentrica nel Vittoriano, in questo caso si ha uno straordinario effetto “in soggettiva”, ed è come se l’immagine ci guidasse ad attraversare la strada lungo le zebre fino a raggiungere il monumento.

Lo stesso effetto, la stessa inquadratura di tipo cinematografico, lo troviamo in Ombrellone a Sotteville sur Mer: le linee sulla sabbia che conducono al vertice lontano dell’ombrellone, bellissimo il gioco delle nuvole con la luce che si fa spazio al centro; e in Tre sedie-l'attesa, sintesi perfetta di un giorno d’estate.

La fiabesca, evanescente Persone in piazza San Marco, ricorda tanto – e ce lo rammenta lo stesso Tommasoni – Punto di vista di San Marco, stenopeica Cibachrome del 1981 di Paolo Gioli; la leggera curvatura del campanile, dovuta probabilmente alla pellicola non in perfetto piano (la fotocamera stenopeica restituisce sempre un’immagine ortoscopica), ci ricorda la capacità della stenopeica di creare foto anamorfiche, curvando il piano della pellicola.

Due sulla panchina. La Laguna è un’immagine che comunica una forte inquietudine forse perché eseguita durante la pandemia, e ricorda l'America triste di Edward Hopper. L’assenza di comunicazione e la mancanza di azione tra i due personaggi, i loro sguardi che escono dalla fotografia, il gioco di luci chiare, la geometria della panchina, trasmettono un senso di solitudine, di attesa, accresciuta dalla fredda luminosità dell’esterno.

Con la solare Serbian vulkanizer e Torre Velasca. Critica al modello urbano, dai soggetti apparentemente banali e i colori accesi, passiamo invece alle suggestioni della fotografia di William Eggleston.

Le immagini più curiose sono quelle di movimento (Highways landscape, Camion giallo, Roulotte, Camion brutalista, Camion futurista), che ricordano la tecnica del photofinish usata da Gioli, ma mentre questi muoveva la fotocamera come una cinepresa, Tommasoni ha piazzato la sua su un veicolo in movimento. In questi casi, “i tempi di ripresa – osserva il fotografo triestino – si allungano in modo tale da rendere improprio l’uso del termine scatto, io uso piuttosto quelli di ripresa o esposizione. L'elemento tempo assume notevole spessore in queste foto, che in certi casi possono racchiudere una sorta di piccolo film in una sola unica immagine”.

In questo modo l’artista registra i mutamenti, non ferma più il momento, non cattura l’attimo, eludendo l’istante decisivo di Cartier-Bresson. “Si attende che vari attimi in successione si depositino sull’emulsione in fondo alla scatola, si stratifichino producendo poi quella particolare atmosfera di tensione in cui da un momento all’altro potrebbe accadere qualcosa. Ed in questa sospensione del tempo, o meglio, in questo lento scorrere e sovrapporsi di istanti si compie il manifestarsi dello specifico stenopeico: un panta rei, il gioco dell’attimo e dell’eternità” (Vincenzo Marzocchini, Fotografia stenopeica, Atti del primo convegno nazionale, Musinf, Senigallia, 2012, p. 9).

Le nove piccole immagini simili a bottoni luminosi, ognuna racchiusa nel tunnel creato dalla caduta di luce ai bordi del foro e con una propria storia, qui riunite in un unico pannello nero, Matrice 3x3, a formare un collage di puro colore, sono state ottenute con un metodo diverso. Dal 2017, Tommasoni ha sperimentato la possibilità di sostituire la pellicola con il sensore digitale dello smartphone, grazie ad un sistema di doppie scatole in cui viene incastrato il cellulare. Con lo stesso sistema è stata ottenuta una delle immagini in vetrina: la già citata Linda a Roz sur Couesnon. “Sto provando una certa soddisfazione anche con queste”, cita Tommasoni, ma “in sostanza, credo che le immagini ottenute su pellicola siano ancora le migliori”.

Volevo solo essere amato”, esposizione personale di Lorenzo Tommasoni,

6 aprile-2 maggio 2024, Sala comunale d’arte, Trieste

Vere finzioni. Attenti alle immagini false

Adriana Casertano

5 aprile 2024. Nel Regno Unito domenica 10 marzo 2024 si celebra la “Festa della mamma” e la principessa Kate Middleton, per l’occasione, diffonde una bella immagine di se stessa con i suoi bambini, accompagnata da un messaggio di auguri da parte del marito. Foto ripresa da tutte le principali testate internazionali perché la curiosità del pubblico è grande: la principessa non si fa fotografare da mesi a causa del suo stato di salute.           

Dopo qualche ora, diverse agenzie di stampa molto autorevoli rimuovono la foto dai propri archivi fotografici, quelli da cui attingono i giornali di tutto il mondo, dicendo che si trattava di un’immagine modificata e quindi non in linea con i loro standard di accuratezza giornalistica. Allarmati, chiedono chiarimenti urgenti. Il giorno seguente la principessa diffonde un comunicato in cui si scusa e spiega che, come molti altri, fa occasionalmente ritocchi alle sue foto. Tanto clamore e indignazione per l’immagine di un personaggio pubblico che non ha voluto condividere con un mondo voyeuristico i segni della malattia.

Giovedì 24 febbraio 2022. Il TG2 diffonde durante la cronaca della guerra in Ucraina il teaser trailer del videogioco “War Thunder” commentando le immagini come “la pioggia di missili” abbattutisi su Kiev.

Scoperto l’inganno, la RAI ritiene non sia il caso di scusarsi perché, dice, non si è trattato di un errore. Pare che questo tipo di pratica – proporre immagini false – sia ricorrente, usato anche da altri media e in altri momenti. La TV di stato considera che le bugie ai danni dei telespettatori, oltretutto paganti, non siano eticamente scorrette.

 Tornando nel campo della veridicità fotografica – e non dell’etica dell’informazione – è sconfortante notare che l’attenzione che le agenzie di stampa hanno applicato all’immagine della principessa britannica, non è usata nei confronti delle tante foto dal forte impatto emotivo che riguardano eventi terribili. Immagini che spesso sono false: o manipolate, o prodotte dall’intelligenza artificiale, o tratte da film e videogiochi, o riferite ad altre situazioni ed epoche.

Nel loro saggio del 2015, Phishing for Phools (ed. italiana: Ci prendono per fessi. L’economia della manipolazione e dell’inganno, Mondadori, Milano, 2016), i premi Nobel per l’economia George Akerlof e Robert Schiller estendono il phishing – un fenomeno vecchio quanto il mondo, cioè la truffa, ma in campo informatico – a tutti gli ambiti della vita. Non è un fenomeno occasionale, precisano, ma qualcosa di onnipresente e inevitabile: più inganno che frode, il loro phishing riesce a sfruttare le debolezze informative e psicologiche del “phool”, il fesso, il pollo, per, nel peggiore dei casi, farlo cadere nella truffa, e nel migliore, annullarne il senso critico e così condizionarne le decisioni. Come? Col sapiente uso di concetti, fatti e soprattutto storie che suscitino emozioni. E, tra le storie, un posto di primo piano è occupato dalle immagini. D’altronde non si usa dire che un’immagine vale più di mille parole?

Il raggiro è reso possibile grazie alla straordinaria qualità realistica raggiunta dalle immagini prodotte dall’intelligenza artificiale e dai videogiochi, e ha trovato una complice nella reputazione di affidabilità di cui gode la fotografia. Malgrado che, fin dal suo apparire, gli stessi fotografi abbiano messo in guardia sulla sua presunta veridicità, riassunta in forma tranchant da Joan Fontcuberta: “La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare la fotografia mente sempre, mentre per istinto, perché la sua natura non le permette di fare altro” (Il bacio di Giuda. Fotografia e verità, Mimesis, Milano-Udine, 2022, p. 23). 

Nella Morgue di Parigi, domenica 18 ottobre 1840, viene fotografato il corpo di un suicida, annegato nella Senna, probabilmente per dichiararne pubblicamente la morte. È urgente la sepoltura: il cadavere ha iniziato a decomporsi, come si può vedere dal volto e dalle mani già scuri, e dall’odore. Ha lasciato un biglietto firmato in cui spiega i motivi del suicidio. Si chiamava Hippolyte Bayard. È la prima, famosissima, fotografia fake della storia: Le noyé, l’autoritratto da annegato di Bayard, che si ritrae come una via di mezzo tra il Cristo deposto e il Marat di David, e che ci offre la “aurorale messa in essere della potenzialità della fotografia di dichiarare il falso” (Federica Muzzarelli, L’invenzione del fotografico. Storia e idee della fotografia dell’Ottocento, Einaudi, Torino, 2014, p. 45).

Per chi è interessato alla fotografia, ma la cosa dovrebbe riguardare tutti, la questione appare cogente. Ci viene in soccorso Michele Smargiassi col suo manuale di autodifesa (Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, Contrasto, Roma, 2009), dove invita a non essere ingenui (il “phool” di cui sopra), a finirla con la fiducia incondizionata nel “vero fotografico”, mai esistito, ad alzare il livello di lettura delle immagini, entrando “nel sistema-fotografia da tutti gli ingressi possibili (tecnico, antropologico, iconologico) per smontarne la costruzione”, e ad adottare nella fotografia documentaria il “principio del testimone oculare” proposto da Ernst Gombrich (L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino, 1985), regola secondo la quale l’immagine non deve includere nulla che un testimone oculare non potrebbe aver visto in un dato momento da un certo punto di vista.

Attrazione fatale del fotomontaggio

di Claudia Morgan

 

Ho scoperto per caso questi divertenti fotomontaggi d'epoca che mettono in luce quanto sia attrattiva la possibilità che offre la fotografia di ingannare l'occhio dell'osservatore non attento.

L'autore, si presume un abile dilettante, è Arrigo Russi.

La data 1890 ca.

 

Siamo sulle rive e le belle signore sfoggiano gli abiti della passeggiata, 1890 ca.

Fotomontaggio di Arrigo Russi.

Quadretti di vita cittadina

1. Due ragazze in gamba. 2. Al bagno. 3. Venderigole. 4. Il solito liston domenicale al Molo san Carlo. 5. Le bambine fingono di seguire le lezione, ma pensano alle proprie qualità fotografiche. 6. Acquedotto dopo il Politeama. 7. A Sant'Andrea passeggiata. 8. Un barbiere che ha l'aspetto di un ministro presidente. 9. Il Corso sotto la pioggia tra gonne e sottogonne.

Fotomontaggio di Melchiorre Ciama con fotografie di Davide Salvatore Camerini (2, 6, 8) e di Arrigo Russi.

Non vi rivelo dove le ho scoperte!

La fotografia deteriorata, metafora della vita

Riflessioni sulla mostra "Cultura di polvere" di Joan Fontcuberta a Palazzo Fortuny

Adriana Casertano 

25 marzo 2024. La mostra di Joan Fontcuberta Cultura di polvere, ospite a Venezia nel Museo Fortuny, dopo le tappe di Roma e Milano, è sconcertante. Proprio nel senso che causa uno stato di turbamento, di disorientamento, di perplessità.

Il suo fascino risiede non tanto nelle opere esposte quanto nelle domande che solleva. Perché è una mostra, più che fotografica, concettuale. Un invito a ripensare la fotografia. Sicuramente, come affermato dal giornalista Stuart Jeffries intervistando tempo fa Fontcuberta (“The Guardian”, 2014), la visita “richiede il dispendio gratificante di molta energia critica”.

 Protagonista dell’esposizione è il deterioramento dell’immagine fotografica, che per Fontcuberta diventa una metafora della vita. “La fotografia è un materiale vivo”, racconta, “Ha la sua biologia, il suo metabolismo. E questo metabolismo fa sì che le immagini nascano, si sviluppino e raggiungano maturità, poi diventino decrepite e infine agonizzanti e muoiano per ricominciare, forse, il ciclo della vita”.

 È qui che interviene l’artista che, concentrandosi su queste immagini destinate alla morte, può dare loro una seconda opportunità, riportarle in vita con un intervento artistico. Con la creazione di nuove immagini, formate dalla memoria antica e dalle cicatrici aggiunte dal tempo e dagli eventi. Nuove immagini che portano con loro una patina di nostalgia, un significato di storia vissuta. Che propongono un senso di straniamento, che fa di loro vere e proprie proiezioni d'immagini mentali.

Fontcuberta ha selezionato ventun lastre stereoscopiche rovinate – scattate tra il 1902 e il 1904 da un altro fotografo, Francesco Chigi –; ha scelto alcuni dettagli, gli ha ingranditi, fotografati senza compiere su di loro alcuna manipolazione, e messi in mostra. Così facendo ha anche “fermato il tempo”: ha fissato quel momento esatto del loro deterioramento, tra un paio d’anni l’immagine non sarà più la stessa. 

Nei dodici lightbox retroilluminati, dal formato 100x150 cm, si possono vedere, ingranditi ed esaltati dalla luce che li attraversa, tutti i segreti, le trame, i più piccoli dettagli del cancro che ha colpito l’emulsione alla gelatina d’argento. Cancro causato da muffe, microorganismi, batteri, funghi, umidità che ne hanno divorato la memoria, lasciando pochi lacerti di forme riconoscibili, sparpagliati qua e là.

Sono immagini astratte, vagamente impressioniste, ma a veder bene quelle che sembrano stelle sono spore di funghi, i nastri candidi sono filamenti di miceli e le macchie vivide, gialle, viola, nere, sono la materia degradata dai batteri nel corso del loro banchetto. 

 In un’altra sala, su un lungo tavolo nero sono esposte e illuminate altre lastre stereoscopiche di 8,5x17 cm col lato dell’emulsione ricoperta di muffa lanuginosa e brulicante di batteri e funghi. E di polvere, che nel tempo ha inglobato le spore della muffa.

La polvere, che dà il nome alla mostra, assume qui un significato escatologico, rimanda all’origine e alla fine: tutto nasce dalla polvere, tutto ritorna polvere. “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”.

 “Giardini di polvere” (Jardins de pols) è il nome che l’artista catalano ha dato all’esposizione inaugurata nel settembre dell’anno scorso a Barcellona, in cui ripropone in parte queste stesse opere, affiancate dai “ritratti” dei microrganismi responsabili del loro degrado, ottenuti con un microscopio elettronico.

“Coltura di polvere” (Élevage de poussière) è l’ironica foto di Man Ray del 1920 – nota anche come Vue prise en aéroplane par Man Ray –, cui Fontcuberta si richiama, e che con un gioco di parole trasforma in “Cultura di polvere”.

Man Ray aveva fotografato dall’alto, e con una ripresa inclinata molto bassa, un particolare del "Grande vetro" di Marcel Duchamp (Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923, Philadelphia Museum of Art), così come l’aveva trovato: pieno di polvere e residui dell’ovatta usata per pulirne una parte, riuscendo a catturare magnificamente la diversità dei materiali sulla superficie del vetro. Duchamp aveva posto per un anno il vetro orizzontalmente su due cavalletti in un angolo del suo studio a New York, perché voleva che il tempo vi creasse un “allevamento di polvere” che avrebbe completato l’opera, con una serie di rifrazioni ottiche al posto dei tradizionali colori. Polvere che poi fissò permanentemente con cemento diluito. 

Fontcuberta lavora sui principi surrealisti dell’objet trouvé. Come Marcel Duchamp aveva preso un comune pissoir e lo aveva trasformato in una scultura, così lui ha preso del materiale fotografico molto degradato, e lo ha trasformato in un’opera artistica dotata di “una certa dimensione poetica, strana, particolare”.

L’artista catalano è affascinato dalle fotografie malate, che trova di una bellezza incredibile, “la bellezza delle ferite, la bellezza delle cicatrici, la bellezza del degrado”.

La ricerca di queste immagini malate inizia nel 2016 in varie fototeche delle Asturie col progetto “Trauma” (anche le opere in mostra a Venezia prendono il titolo di Trauma # seguito dal numero): fotografie che hanno subito un qualche tipo di deterioramento che disturba la loro funzione documentaria e impedisce loro di “vivere” in un archivio ma che allo stesso tempo conferisce loro una straordinaria singolarità plastica. Da queste immagini ha realizzato un libro d'artista, Die Traumadeutung (Fundación María Cristina Masaveu Peterson, 2016), premiato come il più bel libro di fotografia pubblicato in Spagna nel 2016. Il frontespizio del volume imita la copertina della prima edizione del libro di Sigmund Freud, Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni), del 1900, riportandone anche la citazione, uno dei versi più straordinari di Virgilio: “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei del cielo, muoverò gli Inferi: Eneide, VII, 312), e dove la parola tedesca Traum (sogno) è stata sostituita da quella spagnola Trauma

 

La sua ricerca prosegue nel 2021, quando viene invitato a prender parte al programma “Residenze d’artista” dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), in cui artisti contemporanei sono chiamati a confrontarsi con il patrimonio storico dell’ente, con l’obiettivo di realizzare nuovi lavori fotografici in piena libertà espressiva e in accordo con l’archivio. Nuove fotografie, che alla fine saranno inglobate nell’archivio dell’ente, per promuoverlo non solo in ottica conservativa, ma anche in chiave contemporanea.

Per Fontcuberta ogni archivio è “una caverna di Alì Babà ricca di tesori”, e quando, come in questo caso, l’artista ha la libertà di interpretare i materiali in modo alternativo, diventa “una piattaforma di creatività”. Entrando nel Complesso Monumentale di San Michele a Ripa Grande a Roma, sede dell’ICCD, il suo apriti, sesamo! è stato: “Qual è il materiale più deteriorato che avete?”. La scelta è caduta sul fondo Chigi.

Il principe Francesco Chigi Albani della Rovere (1881-1953), fu una figura poliedrica: appartenente a un’importante famiglia della nobiltà papalina, fu scienziato naturalista, sperimentatore, viaggiatore. Con due grandi passioni, l’ornitologia – D’Annunzio lo definì il “principe degli uccelli” – e la fotografia, coltivate entrambe non da dilettante ma da maestro, con uno sguardo avveniristico per i tempi. 

In un momento in cui la stereoscopia viene vista come un divertissement da salotto, lui la usa per fare ricerche sulle prospettive e le profondità di campo; è tra i primi in Italia, già nel novembre 1907, a cimentarsi con l’autocromia dei Fratelli Lumière (entrata in commercio il 10 giugno), mostrando grandi capacità nel bilanciamento del colore e ottenendo riconoscimenti internazionali; sperimenta con la composizione, le aberrazioni, i fotomontaggi, le prove di viraggio, le tricromie. La perfetta conoscenza tecnica delle macchine fotografiche e delle attrezzature di camera oscura gli permette di intervenire con adattamenti e modifiche per raggiungere i risultati prefissati.

Definirlo fotografo dilettante appare riduttivo e fuorviante: fu uno scienziato che usò la fotografia per documentare le sue ricerche scientifiche, senza compiacimenti artistici. Anche nelle fotografie private, di famiglia e di viaggi, disattende tutte le regole manualistiche dell’epoca, creandosene di proprie.

Il fondo, donato nel 1970, presentava seri problemi di conservazione. I numerosi traslochi e l’incuria avevano rovinato parte del materiale, formato soprattutto da negativi alla gelatina d’argento su lastra. Dopo la morte di Francesco Chigi, nel 1953, le fotografie e le attrezzature erano state abbandonate nella soffitta della casa del guardiano della tenuta di Castel Fusano, dove Chigi, ai primi del secolo scorso, aveva allestito uno dei suoi laboratori. La parte in buone condizioni oggi consta di poco più di 6000 fototipi. Un’altra parte, non quantificata, venne considerata subito materiale di scarto perché in pessime condizioni, tali da non consentire nemmeno la leggibilità dell’immagine, con l’emulsione ormai compromessa da sollevamenti e distacchi, muffe e microorganismi, con lastre appiccicate tra di loro o ai contenitori.

Queste sono le immagini utilizzate da Fontcuberta. Che vi scorge un paradosso. “La fotografia ci aveva promesso l’immortalità”, osserva, “il nostro corpo è destinato a scomparire ma la nostra immagine rimane per sempre. Questa è la promessa della fotografia. Ma ora scopriamo che questo è falso. Anche la fotografia è deperibile e scomparirà”. Perché è un dispositivo di memoria legato al suo supporto materiale, il deterioramento di quest’ultimo genera una fotografia “amnesica”, senza più memoria.

In realtà, il progetto “Trauma” (cui appartiene “Cultura di polvere”) si inscrive all’interno di un percorso più ampio sull’analisi concettuale dell’immagine fotografica, seguito con coerenza da Fontcuberta nel tempo, che lo ha portato a demolire la fotografia analogica. Prima ha messo in dubbio l’idea della fotografia come specchio della realtà ed espressione della verità; poi la credenza secondo cui il messaggio fotografico non necessiti di essere interpretato in quanto, per natura, evidente. E ora punta il dito sulla memoria e materialità della fotografia.

Per il fotografo catalano siamo di fronte alle rovine della fotografia analogica, della fotografia fotochimica, alla fine di una fotografia materiale e oggettuale come la abbiamo conosciuta, e in transizione verso la fotografia digitale, algoritmica. “Oggi viviamo nella post fotografia – afferma – e questo ci consente di dire addio alla fotografia come l’abbiamo conosciuta, ma anche di renderle un tributo”. Con questa mostra.

Brevi notizie

 

19 gennaio 2024 

Un doveroso riconoscimento a chi ha voluto rendere noto a un pubblico che si interessa d'arte e di fotografia per questo Ritratto di Jean Journet datato 1857 del grande Nadar pubblicato su Il Venerdì di Repubblica del 19 gennaio 2024.

Grazie a Tommaso Montanari che non ha bisogno di presentazioni, per avercelo proposto e diffuso sul  settimanale con un preciso commento, in quanto custodito in una collezione privata.

Pubblicità per Didier Guyot photographe ambrotypiste di Clermont-Ferrand scoperto per caso che presenta al mondo il suo credo.

"J'ai capturé la lumière fugitive et l'ai emprisonnée!       

J'ai contraint le soleil à peintre des images pour moi!"

 

"Ho catturato la luce fugace e l'ho imprigionata!

Ho costretto il sole a dipingere per me!"

 

Grazie Didier

 

Qualche precisazione sulla fotografa Anna Scrinzi

"La più antica immagine fotografica del porto di Trieste è giunta sino a noi realizzata nel 1870 da Anna Scrinzi"...

Ci spiace contraddire il nostro articolista, ma la realtà di quanto afferma va ridimensionata.

In base al Catalogo dei beni culturali dei Civici Musei si può documentare che nel 1870 sono state prodotte ben 24 vedute del porto di cui, 18 di Anna Scrinzi, 2 di Giuseppe Wulz, 1 di Josef Martini, 1 di Ferdinando Ramann, 2 di fotografi non identificati.

E per quanto riguarda l'attività di fotografa di Anna Scrinzi in questo articolo abbiamo sintetizzato i dati biografici raccolti attraverso una lunga ricerca d'archivio.

 

Archivi fotografici in rete, un seminario a Trieste

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Venerdì 5 maggio 2023 all'auditorium Bruno de Finetti di palazzo Berlam a Trieste, sede dell''Archivio Storico Assicurazioni Generali, si è tenuto un seminario che ha riunito diverse istituzioni cittadine legate al mare per parlare di archivi fotografici.  Si trattava della seconda edizione di "Una Rete in Viaggio. Storie, idee, progetti", un programma di appuntamenti promosso dalla Rete per la Valorizzazione della Fotografia. Nata nel gennaio 2011 su iniziativa di un gruppo di enti e istituzioni pubbliche e private che si riconoscono nell'obiettivo comune di promuovere e diffondere la cultura fotografica, quest'anno Rete Fotografia, dopo i convegni su pianura e montagna, si è concentrata sul dialogo che l'uomo da sempre intrattiene con il mare e sull'evoluzione del paesaggio. La scelta di palazzo Berlam rimanda allo sviluppo del Gruppo di Generali avvenuto in stretta connessione con l'acqua e il Porto franco. Non a caso, gli album fotografici più antichi conservati dalla Compagnia sono dedicati ai palazzi di Trieste che Generali ha sempre voluto vicino alle Rive. Da qui partivano le imbarcazioni dei pescatori e le navi cariche di merci o uomini. L'incontro all'Archivio Storico Assicurazioni Generali ha visto la partecipazione di Roberta Spada, Silvia Stener (Archivio Storico Assicurazioni Generali), Giulia Zolia, Raffaella Tamiozzo (Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale), Claudia Colecchia (Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte - Trieste), Daniela Pacchiana (Museo delle Storie di Bergamo) e Andrea Bonifacio, Silvia Pinna (Museo del Mare - Trieste).  Chi volesse ascoltare gli interventi può trovare la registrazione qui sul canale YouTube di Rete Fotografia.

Cufter-Carlo Coretti svelato finalmente in un volume

1° luglio 2022. L'uscita di un volume dedicato all'archivio fotografico del misterioso Cufter, finalmente svelato nella sua vera identità, cioè identificato col fotografo dilettante triestino Carlo Coretti, è una buona notizia perchè ogni contributo alla storia della fotografia è prezioso. Pertanto anche noi ci rallegriamo della possibilità di leggere finalmente la sua storia per intero e non per frammenti sparsi sui social.

Dobbiamo dire però che il modo in cui si è arrivati a tutto questo ci ha suscitato qualche perplessità, soprattutto per il singolare percorso di ricerca condotto attraverso i social, ma non abbiamo ancora letto il libro per cui ci riserviamo di dare un giudizio non appena lo avremo analizzato.  Intanto ecco l'articolo uscito oggi sul quotidiano "Il Piccolo".

OPINIONI, REVISIONI

Sulla credibilità delle istituzioni... Errori e fake news nella catalogazione delle fotografie.

26 aprile 2022. La nostra attenzione, come i lettori sanno, è rivolta al mondo alla fotografia storica triestina che si diffonde sul web e, in particolare, a quanto propone ed espone scientificamente la Fototeca dei Comune di Trieste, che è un punto di riferimento in questo campo per studiosi, studenti, curiosi e navigatori casuali in rete.

A tale istituzione da sempre viene attribuito un ruolo importante e un' autorevolezza tale da essere fonte di riferimento per chi fa ricerca. Molto importante è l'informazione che appare a catalogo, siamo ancora legati al concetto di “catalogo di qualità” inculcatoci dal maestro Mauro Guerrini, all'authority control che nel web ha acquisito una valenza straordinaria. Non si può gareggiare con quanto viene proposto da siti di dilettanti o su quanto appare su Facebook.

Ma l'autorevolezza va conquistata e mantenuta, accettando anche le segnalazioni di chi propone un'amichevole collaborazione.

Eccoci qui allora a segnalare alcuni errori, che rischiano di contraddire questa autorevolezza.

Claudia Morgan

Spunti di riflessione sulla diffusione della cultura attraverso la fotografia

12 marzo 2022. Abbiamo ancora tanto da imparare e da scoprire, le conduttrici di questo sito ne sono consapevoli al punto da cercare con ostinazione suggerimenti, spunti, idee da applicare al proprio modo di vedere e di concepire la diffusione della cultura attraverso la fotografia così da applicarli nell'aggiornamento di questo sito.

Ci fa riflettere l'atteggiamento del direttore Christian Greco del Museo egizio di Torino che affronta con una decisione da definirsi storica, rispetto alla gelosa conservazione del patrimonio museale da offrire con dosata oculatezza, di lasciare libero l'uso della documentazione fotografica anche a scopo commerciale.

Avverte chi consulta il sito del Museo, nella specifica sezione sulla Politica di accesso e utilizzo, come gli stia cuore la mission dell'istituzione nell'ottica concreta di democrazia della conoscenza, chiedendo solo a chi usa le immagini di citare correttamente il codice inventariale che le individua: una prassi normale.

I tempi cambiano.

Chi cura questo sito ha avuto una diversa esperienza...




Questo sito riprende la sua attività

Dopo una lunga chiusura, dovuta a un contenzioso con il Comune di Trieste finalmente risolto, questo sito torna oggi consultabile e riprende la sua attività di divulgazione della storia della fotografia triestina a cominciare dalla documentazione relativa alla mostra "La Grande Trieste" aperta nell'ex Pescheria di Trieste tra febbraio e giugno 2015.

Nel 2021 il sito sarà integrato con nuovi argomenti inerenti la storia e la cultura della città, e, in particolare, dedicherà spazio al dibattito sulla funzione della rete nella circolazione di contenuti culturali.

 

Maria Masau Dan, Claudia Morgan, Adriana Casertano

 

Trieste, 22 dicembre 2020

 





Finalità di questo sito

Attorno al tema "Grande Trieste" oggetto di una mostra realizzata dalle istituzioni culturali civiche nel 2015 si è creato un gruppo di studiosi di storia della fotografia che si propongono, senza alcuno scopo di lucro, di utilizzare correttamente la rete per la promozione e valorizzazione del patrimonio di immagini storiche della città di Trieste e della Venezia Giulia, e in particolare di divulgare le ricerche condotte in occasione della mostra 1891-1914 La Grande Trieste, ma anche prima e dopo. 

Uno spazio informativo  è dedicato all'attualità, a  eventi, scoperte, pubblicazioni, legati alla storia della fotografia in Friuli Venezia Giulia.

Le finalità di questo sito sono scientifiche, didattiche e divulgative. Non ha scopo commerciale e non presenta banner pubblicitari di alcun genere. Le immagini  inserite sono in parte opera degli autori del sito  e in parte ricavate da archivi fotografici pubblici e privati. Vengono pubblicate a bassa risoluzione e, coerentemente con le finalità del sito, per scopi esclusivamente culturali ed educativi, nel rispetto del comma 1-bis dell’articolo 70 della legge n. 633 del 22 aprile 1941, “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”. Tuttavia, qualora la loro pubblicazione violasse specifici diritti di autore, si prega di comunicarlo per la relativa rimozione.

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